In questi giorni sta passando sotto silenzio (con comprensibili ragioni, data la guerra in corso) l’ottantesimo anniversario della battaglia di Stalingrado ed è strano che, anche in Russia, finora, l’evento non sia molto pubblicizzato, anche se per le commemorazioni c’è tempo, almeno fino a fine gennaio prossimo. Ma è proprio nell’ottobre 1942 che questa battaglia colossale, forse la più grande e prolungata battaglia della storia europea, raggiunse il suo acme: e non si tratta solo di fare memorialistica, ma di verificare se un’analisi oggettiva dei fatti può darci qualche indicazione sul nostro presente.
Per fare questo dobbiamo fare un breve riassunto delle operazioni sul fronte orientale, a partire dal 22 giugno 1941, data di inizio dell’operazione “Barbarossa”. L’attacco iniziale della Wehrmacht e della Luftwaffe contro le forze sovietiche, colte completamente di sorpresa, ebbe effetti devastanti. All’inizio di agosto l’Armata rossa aveva già perduto due milioni di uomini e avrebbe continuato a perderne ancora di più nelle grandi sacche di Smolensk e, soprattutto, in quella di Kiev, dove i russi ebbero 300mila morti e 600mila prigionieri.
Proprio la grande vittoria nazista in Ucraina aveva impedito l’attacco finale a Mosca, giacché Hitler aveva deciso di dare priorità alla conquista delle risorse agricole e minerarie ucraine. Leningrado fu cinta d’assedio e il nuovo attacco a Mosca, iniziato il 1° ottobre 1941 (Operazione Tifone) si arenò in dicembre ai sobborghi della capitale per progressivo esaurimento del potenziale offensivo tedesco. Distanze enormi, crisi logistica, equipaggiamento inadeguato all’inverno e, soprattutto, le perdite che, per quanto di gran lunga inferiori a quelle sovietiche, iniziarono a incidere sull’organica dell’esercito tedesco. La grande controffensiva sovietica a Mosca inflisse una sconfitta brutale alla Wehrmacht e per tutto l’inverno l’Armata rossa continuò a contrattaccare su tutto il fronte, subendo perdite colossali ma infliggendone di ingenti ai tedeschi.
L’offensiva tedesca era fallita fondamentalmente per due motivi: l’intelligence germanica aveva grossolanamente sottovalutato l’esercito sovietico, specie nella stima delle sue riserve, ed Hitler aveva fissato alle sue forze armate obbiettivi irrealistici.
Con l’arrivo della primavera del 1942, lo strumento militare tedesco era ancora pericolosamente sotto organico per quanto ancora straordinariamente potente e flessibile. Tuttavia non era possibile sferrare un attacco su tutti i fronti come avvenuto l’anno prima. Bisognava scegliere. Un attacco a Mosca avrebbe probabilmente portato alla conquista della capitale ma sarebbe stato molto costoso e fondamentalmente inutile. La conquista di Leningrado, nonché del nord della Russia con il porto di Arkhangelsk, avrebbe portato alla perdita del 75% degli aiuti provenienti da occidente (l’altro 25% passava sul territorio iraniano) ma non avrebbe risolto i problemi di approvvigionamento tedesco. Restava l’opzione sud, ossia una grande avanzata verso il Volga del Gruppo Armate sud, diviso in due sottogruppi: il gruppo armate A, comandato dal feldmaresciallo Wilhelm List destinato ad arrivare ai pozzi petroliferi del Caucaso, e il gruppo armate B che avrebbe dovuto proteggere l’avanzata di List, presidiando le linee difensive offerte dal Don e dal Volga. Il gruppo armate B era composto, oltre che dalla VI e dalla IV armata panzer tedesche, da due armate rumene, una ungherese e l’VIII armata italiana.
Stalingrado era un obiettivo del tutto secondario e non era prevista la sua conquista. Il compito fondamentale era quello riservato al gruppo armate A che, tuttavia, per le distanze da percorrere e le asperità del terreno da superare, poté avanzare solo molto lentamente.
Ancora una volta Hitler aveva imposto la sua volontà ai generali professionisti, cercando di conquistare più obiettivi con forze insufficienti. Inoltre per reazione ai fallimenti e ai ritardi della Wehrmacht iniziò a licenziare feldmarescialli e generali che non rispettavano le assurde tabelle di marcia prefissate. E a ciò si aggiunse l’idea di trasferire l’intera XI armata, una volta presa Sebastopoli, nel luglio 1942, dalla Crimea a Leningrado per conquistare la città che ancora resisteva. Uno spostamento strategico dall’estremo sud all’estremo nord che andava a intralciare le linee di comunicazione da ovest a est. Fu da questi cambiamenti repentini che nacque la disfatta di Stalingrado.
Poiché il gruppo armate A non riusciva a raggiungere i suoi obiettivi, divenne fondamentale conquistare Stalingrado, in modo da interrompere la linea di comunicazione del Volga. Orbene, Stalingrado era una grande città lunga 40 km e larga 8, addossata alla riva destra del Volga. La parte settentrionale era dominata da gradi fabbriche che sarebbero entrate nella storia militare di ogni tempo: la fabbrica di armi “Barrykadi”; l’acciaieria “Ottobre rosso”, la fabbrica di trattori Dzerzinski, il tutto difesa dalla 62esima armata. L’assalto iniziale, affidato alla sola VI armata comandata dal generale von Paulus, si arenò davanti all’abitato alla fine di agosto, anche per i continui contrattacchi sovietici che videro coinvolta anche l’VIII armata italiana. In appoggio alla VI armata venne destinata anche gran parte della IV armata corazzata del generale Hoth, contrastata dalla 64esima armata sovietica. Il primo assalto congiunto delle due armate tedesche vide la conquista della parte meridionale della città (14-26 settembre). Il secondo assalto (27 settembre – 7 ottobre) portò alla conquista di altre zone della città a costi altissimi. Le perdite tedesche, soprattutto nei reparti più combattivi, si fecero insostenibili. Le perdite sovietiche erano ancora maggiori, ma la resistenza della 62esima e della 64esima armata era continuamente alimentata dai rinforzi che provenivano dalla riva sinistra del Volga. Era stata violata dai tedeschi la prima regola tattica in caso di combattimento urbano: isolare la città da ogni aiuto esterno. Il punto è che la VI e la IV Panzer non avrebbero potuto oltrepassare il Volga. Forse con l’aiuto del gruppo armate A, perso nei deserti meridionali antistanti il Caucaso, Stalingrado sarebbe caduta e la linea del Don presidiata con robustezza. E, invece, Hitler volle raggiungere tutto e perse tutto.
Con il terzo assalto (14-29 ottobre) la VI armata riuscì a conquistare il 90% di quell’inferno di ferro, cemento, carne e sangue che era diventato Stalingrado, senza riuscire a spezzare la volontà di resistenza russa che fu, qui come in tante altre occasioni, eroica sopra ogni definizione. Qui si rivelò, ancora una volta, di cosa era capace il popolo russo quando combatteva per la propria patria, con uno spirito di sacrificio che non era dato dalla spietatezza della Nkvd (la polizia politica sovietica) che mitragliava tutti coloro che cercavano di fuggire dal campo di battaglia (un comportamento, questo, praticato anche dai nostri carabinieri durante le battaglie sull’Isonzo nella Grande Guerra). Certo vi era la spietatezza sovietica ma era molto più grande l’amor di patria di russi, ucraini, siberiani e di tutti gli altri popoli che facevano parte dell’Urss.
Ma intanto nuove forze venivano concentrate dallo Stavka (lo stato maggiore sovietico) per una micidiale controffensiva. E questa azione strategica era pianificata da generali come Georgi Zukov e altri comandanti intelligenti e determinati ai quali Stalin aveva imparato a dare piena fiducia. Paradossalmente il comportamento di Stalin durante la prima fase della guerra, improntato a ordini cervellotici e autocratici, spietato verso i comandanti sconfitti, era diventato quello di Hitler: e mentre questi, nel 1940, si fidava dei propri generali, ora li sostituiva uno dopo l’altro, con l’affanno di un presidente di una squadra di calcio che pensi di ottenere vittorie cambiando l’allenatore.
Con l’operazione “Urano” (19 novembre – 12 dicembre) l’Armata rossa travolse le divisioni romene poste a nord e a sud di Stalingrado fino a quando le due ali accerchianti si congiunsero a Kalach, isolando le armate tedesche. Sarebbe stato ancora possibile salvare la VI e la IV armata, ma Hitler non volle richiamare da sud il gruppo armate A e diede al maresciallo von Manstein il compito di spezzare l’accerchiamento. Quando questo tentativo fallì (operazione Wintergewitter, 12-23 dicembre 1942) era ormai troppo tardi. Con l’operazione “Piccolo Saturno” (16 dicembre 1942-1 gennaio 1943) Zukov frantumò la III armata romena e l’VIII armata italiana. A quel punto un quarto di milione di soldati tedeschi con qualche romeno era isolato a Stalingrado e fu loro comandato di resistere fino all’estremo. Ma questo non per la solita idea balzana di Hitler, ma per permettere al gruppo armate A di abbandonare il Caucaso e risalire verso nord e la salvezza, cosa che avvenne puntualmente con il sacrificio della guarnigione di Stalingrado.
Il 2 gennaio 1943 gli ultimi difensori di Stalingrado (90mila in tutto) si arresero. Era la più grande sconfitta mai subita dall’esercito tedesco in tutta la sua storia ed era anche la pietra tombale su ogni speranza di vittoria dell’Asse.
Se ricapitoliamo gli elementi fondamentali di questa battaglia possiamo trovare diverse analogie tra la condotta tedesca e quella attuale russa in Ucraina.
1. Carenza di intelligence,
2. sottovalutazione del nemico,
3. forze insufficienti a raggiungere gli obbiettivi prefissati,
4. condotta personalistica del comandante supremo a detrimento della professionalità militare,
5. flessibilità dell’avversario (russo di allora e ucraino di oggi) e contrattacco nei punti deboli dell’aggressore.
Ad oggi manca ancora l’impiego di truppe poco motivate e male armate (italiani, ungheresi e romeni) per integrare le forze insufficienti. Ma il possibile impiego dell’esercito bielorusso che, non a caso, è stato tenuto fuori dal conflitto tra Russia e Ucraina, potrebbe far risultare un’ennesima coincidenza. Con una ulteriore notazione: è quanto mai sconsigliato obbligare i russi a dover combattere per la propria patria. Stalingrado è un mito costato troppo sangue perché i russi possano dimenticarlo.
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