Peppino e don Luigi. Come i personaggi di Guareschi, ma stavolta in carne e ossa e protagonisti della vita politica italiana agli inizi del ‘900. L’uno, Giuseppe De Felice (di cui in questi giorni si ricorda il centenario della morte) fu a capo dei Fasci siciliani, fu parlamentare per numerose legislature e, a lungo, pro-sindaco (ma i suoi contemporanei lo battezzarono “viceré socialista”) di Catania. L’altro, Luigi Sturzo, sacerdote, fu anche lui accanto ai contadini taglieggiati dai latifondisti, organizzatore di cooperative e casse rurali, pro-sindaco di Caltagirone, fondatore (nel 1919) del Partito popolare italiano e, nel secondo Dopoguerra, Senatore a vita.



I due, così distanti nelle loro idee sul cambiamento della società, avevano in comune una concezione dell’agire politico, che non era applicazione meccanica di astratti princìpi sulla giustizia sociale o sul rispetto della dignità della persona, ma nasceva da una condivisione dei bisogni del popolo e portava a individuare risposte concrete ai problemi.



Fu così che don Sturzo, davanti alla drammatica questione sociale di fine Ottocento, mise da parte l’ambizione di insegnare filosofia nelle Università per esercitare la carità nella politica, fondando cooperative che provvedessero alle affittanze collettive dei terreni, creando casse rurali, organizzando i suoi concittadini nella lotta amministrativa e, infine, fondando, il Ppi.

Anche De Felice, infervorato degli ideali socialisti, introdusse nel Fascio dei lavoratori di Catania il mutuo soccorso, creando così una “scuola” di educazione politica. Quando egli si mise alla guida delle rivolte contadine dei Fasci siciliani, i suoi compagni del Nord lo definirono un “socialista inconsapevole” e lo stesso Engels, interpellato sulla natura delle rivolte contadine in Sicilia, disse che esse avevano poco a che fare con la rivoluzione delineata dal marxismo.



Ma dopo la feroce repressione dei Fasci operata dal governo Crispi e la pesante condanna inflitta a De Felice, nelle città del Nord si svilupparono diverse manifestazioni  a sostegno dei compagni arrestati. Antonio Labriola polemicamente notò: “Ora a Milano si fanno arrestare per gridare: viva De Felice”.

De Felice e Sturzo ebbero in comune anche l’intuizione di sperimentare nel livello locale amministrativo i loro tentativi di risposta ai bisogni popolari. Per una singolare coincidenza i due leader si ritrovarono negli stessi anni alla guida di grandi comuni. E, addirittura, nel secondo Congresso dei sindaci italiani, che si tenne a Messina nel 1902, firmarono un ordine del giorno congiunto sul tema della municipalizzazione dei servizi pubblici. Tra i due vi fu collaborazione, anche se rimanevano differenze marcate. “Per me – precisò Sturzo dopo il convegno di Messina – la municipalizzazione ha il doppio concetto amministrativo e sociale, non posso però avere il concetto di un avviamento alla proprietà collettiva”. Eppure, quella esperienza amministrativa consentì a Sturzo – ma la stessa cosa si potrebbe dire di De Felice – di vivere “il più vicino possibile alla concretezza dei fatti, al contatto immediato con la popolazione minuta”.  

Nella prospettiva di De Felice il Municipio era l’occasione per servire e promuovere la vita cittadina, e rispondere ai suoi bisogni. Esemplare fu la vicenda del “pane socialista”, che portò alla municipalizzazione dei forni della città di Catania. Nel raccontare questa singolare esperienza che interessò l’opinione pubblica di mezza Europa, “L’Illustrazione italiana” del 28 agosto 1904 scrisse: “E’ questo uno dei più arditi esperimenti di municipalizzazione che mai sia stato fatto fin oggi”. In realtà, l’esperimento condotto a Catania portò a un ribasso del prezzo del pane e a una migliore qualità del prodotto.

De Felice, nel suo impegno sociale, pur sperimentando anche sconfitte ed errori, rimase sempre fermo nell’idea di rispondere ai bisogni della gente. E Sturzo, dal canto suo, visse sempre la politica come testimonianza della carità.

Forse varrebbe la pena, in un tempo come il nostro caratterizzato da una crisi di senso della politica, guardare a Giuseppe De Felice e don Luigi Sturzo: il loro esempio ci aiuterebbe a riprendere un’idea di impegno sociale che parte dalla condivisione dei bisogni del popolo per cercare risposte concrete e promuovere un dialogo costruttivo fra diverse identità. In questo modo il singolo cittadino non è una monade,  come vorrebbe l’ideologia della democrazia diretta, ma è inserito in un contesto di legami sociali, culturali e ideali che lo portano a far parte attiva di quei corpi intermedi che, dal basso, sono il primo tentativo di risposta ai bisogni di una collettività.

L’esperienza della pandemia – come la guerra ai tempi di De Felice e Sturzo – ha risvegliato la nostra consapevolezza sull’importanza della solidarietà, perché non ci possiamo salvare da soli. D’altronde “non possiamo permetterci di scrivere la storia presente e futura – come ci esorta Papa Francesco – voltando le spalle alla sofferenza di tanti”, o favorendo quella “globalizzazione dell’indifferenza” che tollera la devastazione dell’ambiente.

Questo tempo, dunque, è l’occasione anche per la politica di sperimentare e immaginare nuove risposte alla mole dei problemi economici e sociali scatenati dal lockdown. Lo Stato tutto fare non basta. Serve, piuttosto, una politica che immagini forme innovative di sostegno a tutti quei tentativi che, pur in un periodo come quello che stiamo vivendo, sono nati dal basso grazie alla solidarietà e alla condivisione vissuta da molti.