“Un salame, per essere un salame, non basta che abbia la forma, il colore, l’odore di salame. Io ho comperato, e purtroppo ingerito, di recente nelle terre redente certi salamini che erano serviti in una nera brodaglia insieme a due foglie di cavoli. Parevano salamini autentici, come quelli della nostra verzata milanese di preistorica memoria in questi tempi di carestia, ma erano salami scientifici, mancava l’anima di salame, ossia carne di maiale e quella del suo degno compagno, in fatto di salami, l’asino”.



Con questa curiosa metafora, agli esordi del Partito Popolare di don Sturzo, padre Agostino Gemelli (1878-1959) entrava in polemica con il sacerdote di Caltagirone, proprio sull’anima cristiana del partito appena fondato. Affidava la sua visione politica ad un libriccino dal titolo inequivocabile: Il programma del Partito popolare italiano come non è e come dovrebbe essere.



Il neofondatore dell’Università Cattolica, in netta coerenza con il proprio manifesto medievalista, apriva una lunga stagione di riflessione sociale e politica che avrebbe impegnato, per almeno trent’anni, l’ateneo di Sant’Ambrogio. Nel momento in cui i cattolici, dopo decenni di preparazione, tolto di mezzo il Non expedit, finalmente potevano sperimentare la forma-partito, Gemelli si preoccupava di tracciarne i confini identitari e di additare i rischi che il Ppi correva.

Innanzitutto rivendicava la necessaria continuità storica tra l’esperienza sturziana e la lunga tradizione “così profondamente informata dell’idea religiosa” del movimento cattolico intransigente, ed il legame radicale con la sua magna charta: la Rerum NovarumLe preoccupazioni di Gemelli si appuntavano, tra l’altro, sul rischio che si stabilisse “una parentela ideale tra il nuovo Partito e le teorie di autonomia politica e sociale, propugnate per parecchi anni con risultati disastrosi da Romolo Murri”.



A monte vi era tuttavia una questione assai più radicale: quel che per Gemelli era intollerabile era l’accettazione, da parte di Sturzo, seppure in via ipotetica, delle dinamiche tipiche del sistema liberale. Perché era – e sarà – proprio lo Stato liberale il vero obiettivo della lotta di civiltà che in Cattolica si veniva coltivando. “Non è dunque possibile conciliare due organismi come lo Stato liberale e lo Stato cristiano – scriveva Gemelli nel suo pamphlet –. Sono due concezioni del mondo, due modi di pensare, di agire, antitetici”.

Per il fondatore dell’Università Cattolica “non è possibile guarire radicalmente questo vecchio gottoso e decrepito che è lo Stato liberale […]. Questo vecchio, quando era ragazzo, scendeva in piazza e faceva le barricate e ci ha dato, e sia benedetto per questo, la libertà nazionale; ma oggi, dopo aver fatto quattrini, edificato officine, comperato case, commerciato in gomma, in cotone, in ferro, dopo esser divenuto deputato, senatore, ministro, oggi trema per la minaccia che gli portino via quattrini, casa e moglie; […] solo per paura, si atteggia a riformatore, e concede brontolando”.

Da destra, insomma, veniva una critica al Partito popolare, che, fondata sulla restaurazione della civitas christiana, inevitabilmente travalicava i confini della semplice visione partitica, ma diveniva, con un’inevitabile carica rivoluzionaria, concezione complessiva della società borghese: “Questo vecchio gottoso che, quando era ragazzo, piantava sulle piazze l’albero della libertà e cacciava preti e frati e monache, ora invece, alla domenica, va a messa con la moglie, perché è necessario inculcare con l’esempio la necessità della religione per tenere tranquillo il popolo; manda i figli a scuola dai frati e dalle monache, perché essi soli li fanno camminare dritti; manda la moglie a confessarsi per conservarne la fedeltà, procura placet ed exequatur a parroci e a vescovi per avere i voti dei contadini, e tutt’al più, ricordo di altri tempi, si limita a far suonare la marcia reale al venti settembre o a parlar male di quell’ingenuo di Benedetto XV, perché tutto questo, quando si è lontani dalle elezioni, fa male a nessuno e non gli procura noie”.

Il passato socialista di Gemelli (“eravamo nell’errore, ma diciott’anni ci cantavano in cuore e nell’animo ci cantava l’ideale di fare qualcosa per il bene degli umili”) certamente forniva un lessico familiare ed emotivo che, catapultato all’altro capo della simmetria, offriva le giuste parole e il giusto metodo per la riconsegna della società a Cristo. Gemelli, rievocando il proprio passato, parlava apertamente di “apostolato”; ricordava i comizi, la prigione, la vendita dei giornali porta a porta, il lungo parlare con la gente… “Stoltezze? Eppure è questa la tattica che conquista. E conquista se in chi la segue c’è un’anima, c’è una vita, c’è una fede”.

Il fascino metodologico esercitato dall’avversario, unificato nell’acerrima critica allo Stato liberale e alla società borghese, resterà una costante nel pensiero cattolico radicale, di destra e di sinistra e arriverà fino a Dossetti, che un trentennio più tardi vedrà proprio nel Partito comunista il giusto metodo, se non di lotta politica, certo di preparazione alla riconquista, di relazione tra le parti, di formazione della classe dirigente e dei militanti.

Oltre lo Stato liberale

Oltre lo Stato liberale è il titolo di un importantissimo libro che la storica Maria Bocci ha dedicato a quell’ambiente ambrosiano ruotante intorno all’Università Cattolica, in cui, nel corso di tre decenni, si son venute elaborando le idee cardine della ricostruzione sociale, politica e istituzionale dello Stato italiano, dopo la parentesi fascista. Ambiente ricco di esperienze diverse, segnato da un itinerario assai articolato, che Maria Bocci illumina grazie ad una mole di documenti inediti (in particolare le carte di Gemelli) che raccontano una storia assai più complessa di quanto fin qui raccontato.

È la storia del dispiegarsi di un pensiero, del solidificarsi di relazioni interpersonali, della costruzione di un’ipotesi di civiltà che butta all’aria i classici modelli interpretativi che volevano un Magnifico rettore col suo entourage di clerico-fascisti, una nuova generazione di intellettuali orientati ad individuare un’alternativa per il post-fascismo, e una storicizzazione del tutto in una sorta di maionese impazzita il cui risultato è stato uno statalismo suicida, una partitocrazia soffocante e una deriva correntizia paralizzante.

Già Giorgio Rumi, cui si deve il “la” a questa svolta interpretativa e di cui la Bocci segue le orme, aveva messo in luce che il progetto gemelliano, al di là dei formali ossequi al regime, aveva un respiro profondo e orientato al futuro. In questa luce anche la lunga e articolata riflessione sul corporativismo che impegna politologi, economisti e filosofi della Cattolica per tutti gli anni Trenta, va in una direzione affatto diversa rispetto al pensiero corporativista fascista, cui spesso è stato associato.

Il pensiero di San Tommaso riletto in piazza Sant’Ambrogio, diventava – scrive Maria Bocci – “punto di riferimento per gran parte del cattolicesimo milanese, [che] scorgeva insomma nel tomismo il ‘fondamento filosofico’ su cui costruire il proprio progetto statuale”.

Quel che guidava questi pensatori era la nozione chiave di “bene comune”, che diverrà poi un riferimento immancabile della socio-politica cattolica. Il che significava innanzitutto la “subordinazione del bene individuale a quello collettivo”, quindi un processo pedagogico di educazione sociale.

Il progetto corporativo che dal ’29 in poi si svilupperà in Cattolica non può essere compreso se non alla luce di una visione dello Stato che è “‘espressione necessaria’ di un ordine naturale e razionale”. Insomma, il corporativismo ambrosiano era “ben altrimenti ambizioso” rispetto al corporativismo fascista, ed era orientato a “rielaborare la dottrina sociale per formulare un pensiero articolato sui problemi più decisivi del loro tempo”.

Il cuore del problema era di riagganciare l’economia all’etica, anzi, di subordinarla, per realizzare finalmente il superamento, anzi l’annichilimento definitivo dell’economia capitalistica. Anche l’economia, insomma, così come la politica, necessitava di un’anima.

In questo processo di approfondimento, nel quale spiccava innanzitutto il nome di Francesco Vito, era inevitabile l’incontro con il nuovo esperimento americano del New Deal rooseveltiano e con il pensiero keynesiano. Il corporativismo, così riformulato, appariva “insomma [come] l’incarnazione della sospirata terza via che raccoglieva il portato positivo degli altri contrapposti percorsi”, quello capitalista e quello socialista, “e degli esperimenti realizzati all’estero” innestando il tutto “sul tronco sempreverde dell’albero tomista, ossia su quella struttura razionale e finalistica del reale che serviva a spiegare genesi, attributi e scopi del complesso statale” (Bocci).

Per uno Stato cristiano

La guerra introduceva un elemento nuovo in questa riflessione. La drammaticità del conflitto innescava un interesse nuovo, quel progetto politico orientato alla ricostruzione di un futuro in cui, al di là degli esiti bellici, per il fascismo non vi era alcun posto. Gemelli non aveva dubbi: occorreva “ricostruire il mondo”. E la sua università si candidava ad offrire un contributo rilevante di pensiero e di azione. Il cuore di tale approfondimento erano le relazioni ridisegnate tra persona e società e “l’organizzazione economica che poteva realizzare i ‘fini della vita sociale secondo il concetto cristiano’”.

Gemelli tra il 1943 e il ’44 avviava una serie di iniziative di studio, di incontri incentrati sulla preparazione di un “codice” che fornisse i tratti essenziali del nuovo Stato democratico. Il punto di riferimento era il Radiomessaggio natalizio del ’42 di Pio XII che veniva studiato, interpretato, chiosato dai vari studiosi della Cattolica e non solo: Fanfani, Colombo, Vito, Dossetti, Amorth, Saraceno, Lazzati…

Parallelamente Gemelli non si asteneva dall’offrire il proprio contributo per la realizzazione di un partito cattolico che nel nuovo tempo potesse competere nell’arengo della politica. I contatti con De Gasperi sono stati frequenti; non solo, al leader politico il rettore offriva “tutte le forze della Cattolica” per la realizzazione del nuovo progetto politico. Contemporaneamente si infittivano i rapporti con Pasquale Saraceno, padre del Codice di Camaldoli, presupposto teorico del nuovo impegno politico dei cattolici.

Insomma, quello dell’Università di Gemelli appare un mondo tutt’altro che appiattito, certamente è un mondo per nulla fascistizzato, e soprattutto – annota Maria Bocci – “il gruppo di Gemelli, quali che fossero le condizioni in cui operava e chiunque vincesse la tremenda battaglia di civiltà ancora in corso, continuava a proporre un progetto alternativo che pescava in convinzioni assai radicate, ma che al contempo sapeva adattarsi alle emergenze della storia”.

Certo, l’idea di partito gemelliana era ben diversa da quella del “vecchio” popolare De Gasperi. Ma il tentativo di dare un’anima cristiana al partito, esattamente come con Sturzo, non era venuto meno, anzi si era rafforzato e portava con sé un bagaglio culturale elaborato in un ventennio, che per taluni aspetti aveva radicalizzato l’idea originaria. Ora era lo Stato il cuore della riflessione degli uomini della Cattolica, uno Stato che doveva riflettere sul piano storico il Corpo mistico, a sua volta socializzato, innestato su una visione della democrazia finalizzata ad una riconquista – sono parole di La Pira con echi dossettiani – “rapida e smisurata”, in cui la politica era un atto “religioso e morale per natura”.

Dall’intransigentismo rielaborato in Cattolica veniva un corpus di idee che ora – era il sogno gemelliano – potevano incarnarsi nella nuova temperie storica. E il rettore non aveva dubbi: gli artefici di tale riconquista sarebbero stati i suoi giovani professorini. La neonata Dc, doveva – a detta di Lazzati – ritrovare l’anima cristiana; Dossetti, in modo più articolato, puntava su un partito che doveva “operare con una totalità di aspirazioni e di iniziative originariamente cristiane, capaci di investire tutto l’uomo in ogni sua connessione sociale”. E il punto di riferimento, appunto, “sembrava il Partito Comunista, ‘unica forza storicamente vitale’”.

Che Gemelli concordasse con tale impegno, non pare vi siano dubbi. La moralizzazione della democrazia, la riconquista dello Stato a Cristo, erano le sue antiche battaglie. In una sorta di eterogenesi dei fini, il corpus ideale e culturale costruito a “destra”, diveniva la linfa vitale per la nuova “sinistra” cattolica.

Il medievalismo gemelliano, passato e ripassato negli impasti culturali che avevano caratterizzato un trentennio, si presentava, nel nuovo contesto storico, con una straordinaria carica di modernità.

(3 – continua)