Silvio Berlusconi è morto a trent’anni da quella catena di fatti storici (Tangentopoli su tutti) che hanno determinato una rivoluzione politico-istituzionale e spazzato via rapidamente i partiti e il sistema dei partiti che avevano governato l’Italia per quasi cinquant’anni. La morte del Cavaliere e il tempo oramai trascorso ci forniscono l’occasione per cercare di comprendere e approfondire questo passaggio fondamentale per la storia del nostro Paese. Una cesura storica che ha visto in Berlusconi uno dei principali protagonisti, e che alcuni autorevoli storici hanno già da qualche anno cominciato a studiare (Colarizi e Orsina su tutti, ma non solo).
Alcune premesse di ciò che è accaduto nei primi anni 90 possono essere rintracciate già negli anni 70, quando un gruppo di magistrati che fa riferimento a Magistratura democratica, una delle associazioni di categoria nate sull’onda del ’68, comincia alcune indagini sulla corruzione della classe politica (il riferimento è soprattutto all’“affare petroli” e al caso delle “tangenti Lockheed”), concentrandosi in particolar modo sulla Democrazia cristiana, nello specifico su Aldo Moro, e il Partito socialista. Negli anni 70, tuttavia, la classe politica si era dimostrata più forte rispetto agli assalti della magistratura: Berlinguer aveva avuto un atteggiamento prudente e lo stesso Aldo Moro aveva affermato con decisione che i politici non si sarebbero lasciati processare “nelle piazze”.
Dagli anni 80 tuttavia le cose cominciarono a cambiare. La fine della stagione del “compromesso storico” e la ricomposizione dell’alleanza di centro-sinistra aveva suggerito a Berlinguer di incentrare la sua strategia politica soprattutto sulla “questione morale”: l’idea cioè che il Pci fosse il “partito degli onesti”, estraneo alle logiche di corruzione che riguardavano invece gli avversari politici, soprattutto Dc e Psi. Naturalmente occorre rilevare che il Pci riusciva a sostenere i costi della propria organizzazione anche e soprattutto grazie ai finanziamenti provenienti direttamente dall’Urss, il famoso “oro di Mosca”.
Gli anni 80 sono inoltre caratterizzati da diffusi segnali di crescita sotto diversi aspetti: dal punto di vista economico si parla di un nuovo boom, di cui sono protagonisti i cosiddetti “nuovi borghesi”, tra cui Berlusconi che costruisce il suo impero televisivo e non solo. Mentre dal punto di vista sociale gli italiani si stavano lasciando alle spalle la stagione del terrorismo e delle stragi. Fanno da contraltare a questa situazione di sviluppo crescenti difficoltà della classe politica e dei partiti maggiori, soprattutto verso la fine del decennio e l’inizio degli anni 90.
La Dc registrava un calo dei consensi e aveva dovuto accettare l’alternanza al governo con il Psi di Craxi, ma soprattutto stava perdendo la caratteristica di rappresentare l’unità dei cattolici in politica (si pensi, ad esempio, al Movimento Popolare, emerso dall’esperienza di Comunione e Liberazione). Con la fine della Guerra fredda, inoltre, l’Italia aveva perduto gran parte della sua importanza geopolitica, e la Dc si trovava costretta a rivedere i suoi rapporti privilegiati con gli Usa.
Il crollo del Muro di Berlino nel 1989 e quello dell’Urss nel 1991 naturalmente portarono maggiori conseguenze sul secondo partito italiano, il Pci, che perse l’appoggio di Mosca e dovette rivedere la sua stessa identità. Non a caso il nuovo segretario Occhetto prese le distanze dai sovietici e anche da Togliatti e cambiò il nome in Partito democratico della sinistra (Pds). Un percorso tutt’altro che semplice, che doveva avvicinare il nuovo partito alla socialdemocrazia occidentale, rinnegando almeno in parte il proprio passato (era stato Berlinguer ad affermare che non avrebbe voluto “morire socialdemocratico”), compresa la storica rivalità con il Psi.
Occorre aggiungere, infine, che verso la fine degli anni 80 si cominciava a sentire tutta l’inadeguatezza delle politiche di debito pubblico messe in campo dai governi del pentapartito: si stava avvicinando la scadenza del 1992 con il Trattato di Maastricht, che avrebbe dato avvio al processo di unione monetaria. Il sistema politico che per quasi cinquant’anni aveva governato l’Italia appariva dunque bloccato nell’immobilismo parlamentare, incapace di affrontare le nuove sfide e di trovare soluzioni ai problemi che si stavano affacciando. Era diffusa nella società civile la consapevolezza di uno scollamento con la classe politica e l’esigenza di un cambiamento, emersa già nelle elezioni del 1992 con il significativo risultato della Lega Nord (oltre l’8%).
È in questo contesto storico che si abbatte la bufera di Tangentopoli. Essa ha bruscamente distrutto quel sistema politico proprio nel momento della transizione e del cambiamento, che sarebbe stato probabilmente più graduale e meno traumatico. Il problema della corruzione nel finanziamento ai partiti era certamente da affrontare, lo stesso Craxi lo disse esplicitamente a Montecitorio nel 1993. Tuttavia Tangentopoli fu molto di più di un’inchiesta giudiziaria, seppure di grandi proporzioni. Alcuni gruppi di magistrati, e il pool di Mani Pulite in testa, tentarono di inserirsi in quel vuoto politico e si concepirono come portatori di una vera e propria missione: non appena far rispettare le leggi ma moralizzare il Paese. Fu il giudice Davigo, oggi condannato in primo grado, ad affermare che lo scopo delle inchieste era quello di “rovesciare l’Italia come un calzino”. Per questo, furono utilizzati strumenti come la carcerazione preventiva, non tanto per evitare la fuga o l’inquinamento delle prove o la reiterazione del reato, ma per ottenere facili confessioni. E i diversi suicidi sono la testimonianza di questo clima di accanimento che, val la pena ricordarlo, riguardò soprattutto (se non soltanto) la classe politica, lasciando sostanzialmente indenne ad esempio il mondo degli industriali.
In quest’opera di moralizzazione del Paese i magistrati furono senza dubbio coadiuvati da una parte dai media, i giornali (con Scalfari in prima linea) e anche le televisioni (non esenti proprio quelle di Berlusconi), e dall’altra dall’opinione pubblica che, investita di un furore moralista-giustizialista, ha avuto buon gioco a identificare tutti i mali della società nella “partitocrazia”. Coloro che provavano a sostenere che forse la corruzione in politica altro non era che un sistema diffuso in tutto il Paese, si rendevano impopolari e oggetto di pubblico dileggio.
In questo contesto nasce il mito autoassolutorio di una società civile buona e incorrotta, vessata da una politica lontana dal Paese reale, esattamente il contrario della cultura diffusa nei precedenti decenni (forse secoli, se si guarda ad un panorama più ampio) in cui spettava all’élite politica il compito di educare la società civile.
Oggi possiamo dire che da questa crescente sfiducia e disaffezione verso la politica l’Italia non si è più ripresa, e lo dimostrano diversi aspetti. Innanzitutto è in questi anni (1993-94 con Ciampi) che comincia quella pratica dei governi tecnici mai verificatasi nella prima repubblica, ma che tanta fortuna avrebbe invece riscosso nella seconda. In secondo luogo, il presidente della Repubblica si distinse come unica istituzione che non aveva perduto legittimità politica agli occhi dell’opinione pubblica. Fu Scalfaro, nel 1993, con il suo diniego alla firma del “decreto Conso” che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti, a far cadere di fatto il governo Amato, mentre il successivo governo, quello tecnico di Ciampi, fu in qualche modo il primo “governo del Presidente”.
In ogni caso è proprio nello sviluppo del mito di una società civile “buona” che si inseriscono la figura e l’ideologia di Silvio Berlusconi.
(1 – continua)
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