Nelle puntate pubblicate fino ad oggi il focus della narrazione è stato posto sull’Italia come è giusto che sia. Sicuramente i nostri giovani conoscono, almeno per sentito dire e non per propria colpa, i nomi di Stalingrado o Pearl Harbour, ma non delle imprese della X Mas o degli alpini in Russia.
La Seconda guerra mondiale fu il più colossale conflitto della storia umana e coinvolse tutti, forse anche più i civili dei militari. Da quella terribile esperienza sorse un’umanità profondamente cambiata, che aveva imparato ad assumersi le proprie responsabilità di fronte al fallimento delle istituzioni e che diede impulso alla libertà di pensiero e di azione di cui l’Occidente gode tutt’oggi. Una libertà conquistata a carissimo prezzo e che va riconquistata ogni giorno, proprio quando viene rimessa costantemente in discussione.
In questa umanità vi erano anche tantissimi uomini e donne che sarebbero divenuti famosi per meriti artistici o sportivi: le star del cinema, soprattutto. È chiaro che molti di essi non avevano ancora intrapreso la carriera artistica. Quasi tutte le star di Hollywood ebbero a che fare con il conflitto e servirono il proprio paese con fedeltà e onore.
L’elenco sarebbe molto lungo e bisogna limitarsi a citarne appena tre: Lee Marvin, “marine”, nel Pacifico, che, ferito nella battaglia di Saipan del 1944, pianse per non poter più combattere coi propri compagni; o Audrey Hepburn che, a quindici anni, visse la battaglia di Arnhem e fece da staffetta partigiana sfuggendo alla Gestapo. Quanto al terzo attore risponde al nome di Cristopher Lee, uno che ha interpretato Dracula, Saruman e, a ottant’anni, un cavaliere Jedi con tanto di spada laser. Nel 1939 si arruolò nell’esercito finlandese per combattere contro l’aggressore sovietico, ma non fu coinvolto in combattimenti. Arruolato nella Royal Air Force, prese parte alla campagna d’Africa e a quella d’Italia con una media di cinque missioni al giorno, oltre a partecipare alle missioni dei commandos in Libia e dei gurkha a Monte Cassino. Alla fine della guerra prese parte alla caccia ai criminali nazisti. Da questa esperienza viene l’autorevolezza con cui riferì al regista Peter Jackson il suono che emette un uomo accoltellato alla schiena: Jackson ascoltò il consiglio e non discusse.
È doveroso citare due eroi francesi che, malgrado l’età non più verde, si batterono e morirono per la libertà del proprio paese. Quando si tratta di uno storico del calibro di Marc Bloch, torturato per tre mesi e fucilato il 16 giugno 1944; o di quel poeta supremo, mai sufficientemente amato e conosciuto che risponde al nome di Antoine de Saint Exupery, abbattuto da una caccia tedesco al largo della Costa azzurra il 31 luglio 1944 il ricordo si fa commosso.
Da parte tedesca ricordiamo Max Schmeling, campione mondiale dei pesi massimi, l’unico che riuscì a mettere al tappeto Joe “Black bomber” Louis nel 1936 e fu da questi sonoramente battuto nel match di rivincita: eppure questi due “cavalieri antiqui”, superando pregiudizi e razzismi, divennero amici. Schmeling non solo non fu mai nazista, ma rifiutò di divorziare dalla moglie, la bellissima Anny Ondra (ceca e non di pura razza germanica) e aiutò diversi ebrei. Tuttavia combatté per il proprio paese nei leggendari “Diavoli Verdi”, i paracadutisti tedeschi, lanciandosi su Creta nel maggio del 1941 in una delle più sanguinose battaglie della guerra. Max e Anny sopravvissero alla guerra e vissero insieme fino a tarda età.
Ma vi sono molti altri divi che hanno lasciato una vita di comodità per rischiare in prima linea. Lo spazio di un articolo è davvero troppo breve e molti di essi saranno appena citati, come Robert Stack, che nel 1942 aveva interpretato “Vogliamo vivere!” di Lubitsch e prestò servizio in Marina come istruttore di tiro, o Sterling Hayden, decorato con la “Silver star” per le operazioni condotte insieme ai partigiani di Tito in Jugoslavia.
In Gran Bretagna vi furono divi del teatro e del cinema che si giocarono la vita in guerra: se si pensa ad Alec Guinness, viene alla mente Obi Wan Kenobi in “Guerre stellari” o il colonnello Nicholson ne “Il Ponte sul fiume Kwai” che gli valse l’Oscar. Eppure è arduo immaginare un raffinato attore shakespeariano come Guinness entrare in Marina a 28 anni e partecipare allo sbarco in Sicilia nel 1943 al comando di un mezzo da sbarco con 200 uomini a bordo. Sempre al comando della sua nave, il tenente Guinness operò sulle cose jugoslave evacuando centinaia di civili, scampando a tempeste e partecipando allo sbarco di Anzio nel 1944.
Ancor più spettacolare è la partecipazione al conflitto di un David Niven: certamente la divisa gli è sempre stata a pennello fin da “La carica dei 600” del 1936. Allo scoppio della guerra era un attore strapagato con all’attivo successi come “Raffles, ladro gentiluomo” e “La voce nella tempesta”. Eppure Niven mollò tutto e si arruolò nell’esercito. Dopo un lungo periodo di addestramento si stancò e fece il diavolo a quattro per essere assegnato ai commandos entrando nel “Phantom Regiment”, il “reggimento fantasma”, operando dietro le linee tedesche con coraggio e spietatezza. Il dato più sorprendente è che riuscì anche a girare un film di guerra, “La via della gloria”, nel 1944 per poi sbarcare in Normandia e agire da ufficiale di collegamento con la 1° divisione di fanteria statunitense fino ad arrivare al Reno nella primavera del 1945 col grado di tenente colonnello, insieme al proprio attendente, Peter Ustinov, destinato anch’esso a diventare attore di fama mondiale.
Niven parlò pochissimo della guerra. L’unica volta che vi fece cenno ricordò che aveva aiutato degli americani a cercare le tombe dei propri figli a Bastogne: vi erano 27.000 sepolture. “27.000 ragioni – disse – perché debba chiudere la bocca dopo la guerra”.
Tuttavia è proprio da Hollywood, raffigurata da sempre come un covo di rammolliti e viziosi, che vennero esempi di eroismo in guerra ancora oggi poco conosciuti.
Douglas Fairbanks jr era il figlio di Douglas sr, uno degli attori più amati del cinema muto e, come il padre, aveva la predisposizione a ruoli acrobatici e atletici come “Gentiluomo dilettante” (1936), “Il prigioniero di Zenda (1937), “Gunga Din” (1939). Allo scoppio della guerra aveva 31 anni ed entrò nella Riserva della Marina per essere poi destinato in Inghilterra sotto il comando di lord Louis Mountbatten. A parte aver superato brillantemente l’addestramento dei commandos (cosa non da tutti), Fairbanks ebbe l’idea di creare un’unità speciale, quella dei Beach Jumpers, specializzata in azioni diversive e di disturbo, di estrema pericolosità. Fairbanks operò in Sicilia, poi nello sbarco in Provenza nell’agosto del 1944. Decorato con la Silver star americana, la Legion d’onore e la Croce di guerra francesi, fu nominato Cavaliere dell’Ordine dell’impero britannico e si congedò come capitano di vascello. Dopo di che, nel 1947 tornò ai suoi ruoli acrobatici in “Sinbad il marinaio” (1947).
E’ certo che, oggi, gli italiani ricordino un grande, stupendo, atletico attore come Tyrone Power non come lo spadaccino de “Il segno di Zorro”, dove realizzò con Basil Rathbone uno dei più incredibili duelli mai visti nella storia del cinema, ma soltanto come il suocero di Al Bano. Allo scoppio della guerra, Power era un mito: oltre al “Segno di Zorro” aveva riempito i sogni di milioni di ragazze con “Il figlio della furia”, “Sangue e arena” “La grande pioggia” e “Il cigno nero”. Per fare un paragone, ci si provi a immaginare un Brad Pitt trentenne che, allo scoppio della guerra, aspetta un anno e poi, nel 1942 si arruola nei Marines. Eppure Power, che era anche un pilota provetto, divenne tenente pilota del trasporto aereo nel corpo dei Marines, giudicato troppo vecchio per far parte delle unità combattenti. Power, tuttavia, tanto fece e tanto brigò che partecipò alle battaglie di Iwo Jima e Okinawa nel 1945, decorato con due “bronze stars” per le sue azioni in combattimento.
(1-continua)
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