Un breve passo indietro: con il ritorno della buona stagione, la presenza di gruppi partigiani – che nell’autunno del ’43-’44 si erano molto ridotti negli effettivi – numericamente riprese vigore, con uno stillicidio di azioni che impegnarono duramente le guarnigioni fasciste e tedesche le quali, soprattutto nei piccoli paesi, furono investite da attacchi cruenti.



Inoltre il 25 maggio 1944 era scaduto il termine per presentarsi alla chiamata di leva da parte dei giovani della classe 1925 e le autorità della Repubblica Sociale si erano rese conto che molti non avevano aderito alla chiamata “imboscandosi” ovvero salendo in montagna.

Nel mese di giugno le autorità nazifasciste decisero così di organizzare un vasto rastrellamento di tutta l’area ossolana impegnando almeno 3mila uomini appoggiati da mezzi notevoli.



Furono due settimane di autentico calvario per le formazioni partigiane intrappolate sulle montagne e negli alpeggi, senza rifornimenti e circondate da forze soverchianti. Il rastrellamento si concluse con la cattura di alcune centinaia di partigiani, molti dei quali vennero passati per le armi.

Il grande rastrellamento di giugno fu un’operazione sanguinosa, ma non risolutiva per le forze fasciste, anche perché buona parte dei reparti partigiani riuscirono comunque a sganciarsi riparando in Svizzera e poche settimane dopo la situazione organizzativa e numerica delle bande era ritornata a livello dei mesi precedenti.



Il rastrellamento ebbe però gravi effetti sul territorio: baite, alpeggi, interi paesi bruciati e dure rappresaglie che portarono la popolazione civile a sentirsi più vicina al movimento partigiano.

Gli accordi di Omegna

Ad agosto vi furono una serie di abboccamenti tra i diversi reparti partigiani con un accordo di massima per la spartizione territoriale e per il controllo delle diverse vallate ossolane. Non solo: si iniziò a parlare di un’azione concentrica e coordinata contro i vari capisaldi fascisti, ipotizzando un successivo concentramento verso Domodossola e con l’obbiettivo di liberare l’intera area.

Rimasero peraltro profonde divergenze. Scrive Superti l’8 agosto ad alcuni amici svizzeri: “Ho sostenuto una lotta fortissima con i comunisti di Moscatelli e Pippo, pur trattando con loro e definendo intese. Con Marco Di Dio e Rutto invece accordo completo”.

Ma il 31 agosto Superti è su posizioni ancora più caute su una possibile collaborazione con le brigate “Garibaldi”: “La collaborazione non viene da subito… chi dice di un progettato organismo unico con loro (i comunisti, ndr) dice cose ancora sulla carta, le polemiche ed i malintesi sono ancora numerosi…” (Barlassina-Tagliarino in Cattolici ed Azzurri, Isrn, Novara 1973, pag. 66).

Nello stesso giorno avviene un fatto abbastanza anomalo e poco ricordato: un accordo ufficiale tra le formazioni “autonome” ed i tedeschi per la creazione di una “zona franca” intorno agli stabilimenti industriali di Omegna in cambio dell’approvvigionamento di materie prime ed alimentari alle popolazioni della zona che le autorità della Rsi avevano bloccato da due settimane sostenendo che la gran parte delle derrate andassero a finire nelle mani dei partigiani.

Venne redatto un vero e proprio trattato fra le parti (l’accordo fu concluso senza l’intervento delle autorità fasciste) volto a riconoscere in modo indiretto l’effettiva sovranità partigiana sulle alture circostanti. Contestualmente, i tedeschi si impegnavano a non più operare con azioni di contro-guerriglia, ma i partigiani parimenti a non disturbare più le truppe tedesche del Cusio.

Avuto conoscenza dell’accordo (preso senza interpellarli)  i “Garibaldini” insorsero e la tensione crebbe tra i diversi gruppi partigiani e divenne ancor più forte quando la direzione nazionale del Cnl di Milano bollò l’iniziativa come politicamente insostenibile e ne chiese la revoca.

Sta di fatto che alla fine di agosto del ’44 la presenza delle brigate Garibaldi era preponderante in Valsesia, ma nell’Alto Novarese piuttosto ridotta, limitandosi  al controllo della Valle Antrona sopra Villadossola ed ad alcuni reparti in Valle Cannobina, al comando di Mario Muneghina, che dette vita alla formazione “Valgrande Martire”.

La liberazione di Domodossola

Le operazioni che portarono alla liberazione di Domodossola e conseguentemente alla nascita della Repubblica dell’Ossola furono causa di grosse polemiche all’epoca dei fatti ed anche successivamente fino agli anni 70, quando l’interesse per questi avvenimenti venne a scemare anche per la progressiva scomparsa dei diretti protagonisti.

“È indubbio infatti che Domodossola non venne liberata con una azione militare, ma dopo una serie di accordi tra gli esponenti locali fascisti ed i tedeschi da una parte e le brigate partigiane ‘autonome’ dall’altra, con il diretto intervento del clero locale. I “garibaldini”, fedeli alla direttiva del Cln “con il nemico non si tratta ma si combatte” sollevarono immediatamente – ed anche in seguito – grosse riserve su questo modo di agire; gli “autonomi” ribatterono sempre che la necessità di risparmiare alla città ed alla popolazione una battaglia prevedibilmente cruenta li aveva spinti a tale risoluzione” (Mario Giarda, La Resistenza nel Cusio Verbano Ossola, Vangelista, Milano 1975, pag. 120).

Un esame accurato degli avvenimenti porta addirittura a pensare che l’obiettivo principale di questa azione sia stato proprio quello di estromettere i “garibaldini” dall’occupazione della città – prendendoli in contropiede anche sui tempi – per limitarne  poi la loro presenza militare e politica in tutta la zona. Secondo una documentazione proposta dall’Istituto Storico della Resistenza di Novara, si avrebbe conferma di questo da alcuni documenti – peraltro non specificati – conservati anche dall’Archivio di Stato di Washington.

Siamo comunque ai primi giorni di settembre del ’44: si stringe progressivamente la morsa intorno ai piccoli presidi fascisti dei paesi di fondovalle, a poco a poco le varie teste di ponte nelle vallate minori vengono abbandonate ed i militari della Rsi ripiegano sui centri principali a Domodossola, Villadossola, Premosello, Masera.

A Borca di Macugnaga, in Valle Anzasca, a comandare il presidio c’era un giovane tenente di cui si sentirà parlare: Giorgio Almirante, poi leader politico del Movimento sociale italiano (Msi) che nelle sue memorie ricorda lo sganciamento – avvenuto senza sparare un colpo – ed il ridispiegamento del suo reparto alla periferia di Verbania.

La Valle Formazza viene evacuata dai fascisti, poi il 4 settembre è la volta della Valle Antigorio mentre la Valle Antrona era già in mani partigiane (della brigata Garibaldi) ed alla fine si arrendono anche il presidio di Santa Maria Maggiore e Toceno (Val Vigezzo) i cui militari fascisti e tedeschi ottengono di poter passare in Svizzera e da qui alcuni vengono rimpatriati in Italia da Locarno, via lago.

(3 – continua)

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