Europa sì, Europa no. Europa da alleggerire, o da far scomparire. Europa da razionalizzare. Europa fatta di radici da tenere vive, Europa proiettata verso un futuro senza passato né identità.

Il panorama delle opzioni si presenta quanto mai aperto. Eppure si dimentica troppo spesso la dimensione storica che sta sullo sfondo anche del più bruciante presente. l’Europa stessa, come ogni area di civiltà, è il frutto di una lunga vicenda distesa nel tempo: ha elaborato la sua fisionomia venendo modellata, tappa dopo tappa, da tanti fattori molteplici incastrati tra loro. Da questi incroci sono usciti i lineamenti di un patrimonio condiviso da attori anche in forte contrasto reciproco, con accenti e soluzioni tutt’altro che sempre omogenei e stabilmente assestati. Il volto complessivo somiglia di più a un mosaico a tante facce, e l’identità a cui rinvia è un’identità mobile, che si trasforma: si può espandere e consolidare, oppure su certi fronti si deteriora, subisce erosioni, conosce tagli e amputazioni dolorose.



In fondo, ogni civiltà è come un organismo che cresce e si modifica nella storia. Nasce, prende corpo, e poi va incontro al suo destino, che può essere drammaticamente fallimentare. Anche la civiltà europea è stata il crocevia di una metamorfosi sempre aperta. E questa disponibilità a lasciarsi riplasmare si coglie nel modo migliore guardandola dal punto di osservazione dei confini. I confini sono la frontiera fino a cui può spingersi ogni complesso umano coerente al suo interno. Ma le linee di perimetro non sono fissate in modo granitico, una volta per tutte: si configurano in base alle spinte connesse all’esistenza dei popoli e ai territori che si trovano a vivere o giungono a premere sui due versanti divisi da uno spartiacque che separa.



Separa, sì. Ma solo fino a un certo punto: perché nello stesso tempo mette in comunicazione realtà che non possono ignorarsi a vicenda. Spesso le aree di confine sono cerniere permeabili, dove si amalgamano ed entrano in simbiosi gli elementi di codici genetici differenziati, offerti da portatori in concorrenza (non necessariamente pacifica) gli uni con gli altri. Dalla fusione, che in certe condizioni può essere sostituita anche dall’impatto più duro e spigoloso, si originano contaminazioni, soluzioni ibride, tendenze alla colonizzazione, oppure, in senso contrario, a lasciarsi attrarre in una sfera di influenza eterodiretta. Alla fine, sono questi movimenti di redistribuzione dei campi di forza a ridisegnare senza sosta il profilo dei confini: li spostano in avanti, o al contrario li fanno arretrare e, più frequentemente ancora, li piegano in tanti sensi diversi anche lasciandoli nella posizione in cui si trovano.



L’idea della plasticità dei confini è decisiva per comprendere storicamente l’evoluzione conosciuta da quello che oggi ci appare come l’Occidente cristiano europeo. La sua genesi remota si colloca, lo si sa bene, nelle terre che stanno al centro e a nord del bacino mediterraneo. Sulla frontiera meridionale, più che un bastione inamovibile, si è subito creata una sponda elastica rivelatasi presto molto fragile, che non ha saputo resistere all’avanzata fagocitante, dagli inizi dell’VIII secolo in poi, dell’egemonia dei califfati arabi e dei loro satelliti nordafricani: lo documenta la caduta della Sicilia sotto il dominio islamico e, più a lungo ancora, della penisola iberica. Al nord e a ovest, la barriera del mare aperto è rimasta un argine per secoli insuperabile. A est, invece, tutto si è complicato. L’embrione europeo qui si agganciava al suo retroterra asiatico, di cui era l’estrema appendice geografica. E su questa porzione privilegiata da condizioni climatiche più favorevoli, da precocità di sviluppi e con un potere calamitante di attrazione finivano ciclicamente con lo scaricarsi, dal fronte orientale, ondate migratorie e strategie espansive di gruppi etnici ed entità politiche più fluidi e primitivi rispetto alle costruzioni socioeconomiche e agli agglomerati statali dell’Occidente.

Anche queste realtà di provenienza esterna, che non è ragionevole continuare a raccogliere sotto l’ingiusta etichetta polemica di “barbari”, erano dotate di forza aggressiva, non di rado capace di manifestarsi con una pesante violenza rapinatrice, esattamente come avveniva sul fronte meridionale. Ma i barbari nordorientali erano in genere più disposti a entrare in contatto con le popolazioni con cui interagivano spostandosi verso gli spazi europei. Con maggiore facilità alimentavano esiti più vicini a fenomeni di meticciato sincretista che non a un’assimilazione a senso unico, con un dominatore vittorioso che inglobava nelle sue reti la preda rimasta priva di vita autonoma. La spia più macroscopica della sovrapposizione di culture, linguaggi e visioni del mondo generata dalla confluenza di genti di origine e storie diverse entro i limiti di un bacino territoriale condiviso è la lenta, plurisecolare espansione del cristianesimo lungo il frastagliato asse scandinavo, tedesco-orientale e slavo: quello che costituiva la linea più avanzata dell’irraggiamento della nuova fede verso i margini esterni del Vecchio Mondo.

Solo a partire dagli anni conclusivi dell’VIII secolo, con il sostegno politico-militare decisivo dei carolingi, cominciò a registrare successi decisivi la conversione al cristianesimo dei popoli sassoni. Bisognò attendere ancora parecchio, fino al XII secolo, per veder declinare definitivamente il paganesimo nelle terre scandinavo-danesi e nei territori slavi a est dell’Impero. Il battesimo del primo sovrano polacco di fede cristiana, il duca Mieszko I, risale al 966. Il regno di Stefano I di Ungheria, all’incrocio tra area magiara e diaspora turca, è dei decenni immediatamente successivi. Le missioni di Cirillo e Metodio in Pannonia e Moravia, patrocinate da una Bisanzio non ancora in rotta di collisione totale con Roma, non sono anteriori alla seconda metà del IX secolo. E tra gli slavi orientali, il battesimo del gran principe di Kiev Vladimir I, nel 988, fu solo l’inizio della penetrazione del cristianesimo di rito orientale in un mondo destinato a raccogliersi sotto le insegne identitarie della prima Rus’, su una linea di confine che collegava i lembi più periferici dell’ormai estesa costellazione della variegata cristianità medievale.

L’annessione delle periferie slave all’arcipelago cristiano-europeo era appena agli inizi. Di lì a poco, l’esplosione travolgente dell’impero mongolo minacciò di spazzare via il primo abbozzo di un ponte gettato verso le pianure che portano fino agli Urali. La stessa Kiev subì devastazioni gravissime, e dovette lasciare ad altri centri il compito della riorganizzazione della potenza russa. Ci vollero secoli, comunque, perché l’innesto di questi avamposti della civiltà politico-culturale di matrice cristiana riuscisse a integrarsi pienamente nella circolazione dei rapporti che faceva dialogare le diverse anime della porzione più occidentale. Solo nel Settecento a San Pietroburgo sarebbero sorti i palazzi sontuosi ideati secondo lo stile barocco più maturo da Bartolomeo Rastrelli, a partire dalla reggia degli zar Romanov oggi trasformata nello scrigno dell’Ermitage. Allo stesso architetto italiano si deve il progetto dell’elegantissima cattedrale di rito ortodosso di Sant’Andrea, che ancora ai giorni nostri sovrasta i quartieri della vecchia Kiev, sul filo delle alture ondulate che presidiano il basso corso del Dnepr.

L’essersi venute a trovare lungo la via fondamentale di comunicazione utilizzata, fin dall’età antica, per spingersi dal Mar Nero verso le terre del polo marittimo baltico-lituano, ha destinato le terre attualmente ucraine a diventare uno snodo nevralgico di mescolanza del molteplice (mescolanza che non è sempre sinonimo di sintesi riuscita). Sempre a Kiev, a non grande distanza dall’esotica Sant’Andrea, continuano a risplendere sotto il sole le decine e decine di cupole dorate delle altre cattedrali di stile perfettamente orientale e del grande recinto monastico della splendida “Lavra delle grotte”, ripristinate dopo le offese inflitte, in particolare, nella fase dei due conflitti mondiali e del dominio comunista sovietico. Mentre all’esterno pulsa la vita affannata di una capitale alla rincorsa dei modelli imposti dallo standard filooccidentale, nei cunicoli delle catacombe della Lavra i pellegrini, facendosi luce con le candele, ripetono il gesto arcaico dell’omaggio ai corpi santi di innumerevoli asceti eremiti, di monaci taumaturghi, di martiri e vescovi esemplari, adagiati nelle loro bare con i paramenti sontuosi e i veli finemente ricamati che ne ricoprono il volto. Nelle nicchie ardono le lampade. I fedeli si segnano. Baciano ogni segno di sacralità. Si affidano a un divino che incombe dalle viscere della terra e non si lascia ingabbiare nelle prigioni dei potenti di turno, alla superficie della storia del mondo.