Caro direttore,
trovo opportuno tornare sul punto evidenziato da Giuseppe Emmolo nella lettera pubblicata in data 3 aprile. Questo perché, avendo pubblicato almeno due opere sull’argomento (Il paradiso devastato e Partigiani cristiani nella Resistenza: la storia ritrovata) senza contare gli articoli apparsi su queste pagine, mi sento costretto a precisare che l’impostazione storica da me adottata è radicalmente diversa da quella di Emmolo e da quella della maggioranza, credo, degli italiani.
Né potrebbe essere diversamente per chi, come il sottoscritto, ha iniziato ad amare Beppe Fenoglio, ha approfondito la straordinaria figura di Aldo Gastaldi, di Franco Balbis, di Giancarlo Puecher Passavalli e di tantissimi altri di cui ho scritto e studiato con l’amico Stefano Contini. Eroi quasi tutti morti salvo l’eccezionale paracadutista Paola del Din cui auguriamo di vivere altri 100 anni. Mi creda, non è per una questione sentimentale: quando una persona conosce questi volti e queste storie cambia ed è l’occasione per esser migliori.
Ed è questo che mi spiace di più vedere negli italiani; che non vogliano incontrare quello che ho incontrato io perché “la Storia la scrivono i vincitori”. Già: i vincitori come Giancarlo Puecher, fucilato a ventitrè anni; vincitori come Ettore Rosso che, la sera stessa dell’8 settembre 1943 si fa saltare in aria insieme ai tedeschi che lo circondano; vincitori come Filippo Beltrami, che lascia il suo studio di architetto per andare a morire in combattimento a Megolo insieme ai comunisti Gianni Citterio e Gaspare Pajetta. Per non parlare di martiri della carità come padre Placido Cortese o Delfina Borgato o di obiettori di coscienza come Josef Mayr Nusser: nomi, questi, che agli italiani non dicono assolutamente nulla e c’è da vergognarsene, per chi ancora ne è capace.
Che la guerra in Italia sia stata vinta dagli Alleati è indubbio; ma cosa sarebbe stato dell’Italia se col sacrificio di quasi 100mila caduti (40mila partigiani, 3mila dell’esercito del Sud, 10mila in Jugoslavia e 40mila internati militari in Germania) la nuova repubblica italiana non avesse potuto stare davanti alle altre nazioni con la dignità che si era riguadagnata? Perché se i nazifascisti avessero vinto la guerra o almeno pareggiata, siamo sicuri che la storia sarebbe stata scritta solo dai vincitori mentre, in questa nostra libera Italia, Pisanò e altri studiosi postfascisti hanno potuto condurre, con fatica, studi fondamentali che, l’Anpi lo ammetta o meno, hanno aiutato a ricomporre il quadro complessivo.
La storia della Resistenza è un tema estremamente complesso ed intricato e i giudizi devono essere prudenti come, quasi sempre, la sinistra non è. E proprio per questo ci tocca ripetere che l’attentato di via Rasella era legittimo quanto inopportuno; che Kappler fu giustamente condannato all’ergastolo per aver fucilato dieci persone di propria iniziativa e altre cinque perché aveva sbagliato a far di conto, il che rappresenta bene l’animo dell’uomo; che se Beltrami e il suo compagno d’armi, l’avvocato Macchioni, avevano bene in mente il Risorgimento avvenuto ottant’anni prima, noi, oggi, nel 2023, a distanza di ottant’anni dalla Resistenza, abbiamo solo un quadro storico devastato e nessun ideale per cui valga la pena vivere e morire.
Non è questa l’Italia che ho amato e che amo e per la quale ho indossato l’uniforme; non è questa l’Italia che ho narrato ai miei figli e che narrerò ai nipoti, appena grandi per capire. Eppure nutro la speranza di non essere ancora il solo a volerla libera di riconquistarsi la propria storia.
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