La categoria del catto-comunismo affibbiata genericamente a qualsiasi esperienza cattolica “di sinistra” (fatta salva la vicenda di Rodano e compagni) è storicamente impropria. Essa appartiene semplicemente alla polemica ideologica che ha riguardato, come sempre è avvenuto in campo cattolico nel momento in cui l’esperienza della fede ha scoperto la propria dimensione politica, lo scontro nel secondo dopoguerra tra le diverse anime del cattolicesimo italiano. Polemica che non ha risparmiato i Papi stessi che la storiografia, certa storiografia, non ha esitato a collocare nell’una o nell’altra area ideologica. Progressisti contro conservatori, di destra o di sinistra, appunto.
Considerare Dossetti e il dossettismo, o la Base e certo aclismo post sessantottino, fino alle esperienze della Lega democratica di Scoppola e Ardigò o della milanese Rosa Bianca e della lazzatiana “Città per l’uomo”, come esperienze catto-comuniste è davvero fuorviante. Ma se il catto-comunismo, più che una categoria storico-politica, fosse da considerarsi come una categoria in un certo modo teologica, la questione potrebbe assumere tutt’altro senso. E se chi si rifà a queste esperienze preferisce definirsi come un cattolico democratico (categoria anch’essa assai ambigua) non v’è dubbio che in esse si rintraccia un costante intreccio di politica e di teologia, e soprattutto una continua ansia di riforma della Chiesa e parallelamente dello Stato, che talvolta supera la stessa proposta meramente politica e assurge a ricerca spasmodica di una nuova cristianità che ha radici assai profonde e inaspettate. Lo ha spiegato con lucidità e pathos da protagonista uno storico importante come Pietro Scoppola in La nuova cristianità perduta.
Il tema della democrazia è centrale in questa prospettiva. Basti leggere le prime righe della Bozza di documento per l’istituzione di un “Forum del cattolicesimo democratico” (1984) per comprendere quanto sia pregnante la questione e perennemente attuale: “Il ruolo dei cattolici democratici è stato determinante nella costruzione di una democrazia moderna. Intendiamo per cattolicesimo democratico quella cultura politica che è stata in grado di coniugare ispirazione cristiana e democrazia, visibilità politica e sociale dei cattolici e conflitto moderno, che è stata capace di pensare agonisticamente la laicità non come spazio di omologazione, ma come arma di un conflitto, di uscire insomma dall’orizzonte della ‘civiltà cristiana’ per approdare alla funzione civile del cristianesimo come interiore e incessante rinnovamento della democrazia”.
A ben vedere la democrazia diviene il terreno, il brodo di coltura, su cui innestare e far crescere ogni ipotesi moderna di traduzione politica del Vangelo. Insomma, dalla civiltà cristiana alla democrazia cristiana.
Una teologia della democrazia
La questione della democrazia attraversa il Novecento cattolico in modo quasi ossessivo. Non che la questione non sia pregnante, alla luce soprattutto dell’esperienza dei totalitarismi nazista e fascista, ma essa travalica, in buona parte del pensiero guelfo, la necessità storica, l’orizzonte e il metodo politico, fino a diventare un problema teologico. O, per dirla ancora con Scoppola, si tratta di saldare e sviluppare il rapporto complesso tra “coscienza religiosa e democrazia”. In una parola, si tratta di realizzare sul piano storico la democrazia cristiana.
Il Novecento si apre proprio con una precisazione dottrinale sul termine democrazia cristiana. Se ne occupa Leone XIII con l’enciclica Graves de Communi Re (1901) che ha come sottotitolo Sul vero significato di “democrazia cristiana”. Essa, scrive il Papa, “per ciò stesso che si dice cristiana ha necessariamente per sua base i princìpi della Fede; e provvede al vantaggio dei ceti inferiori, ma sempre in ordine ai beni eterni”. “Non sia poi lecito – continua Leone XIII – di dare un senso politico alla democrazia cristiana. Perché, sebbene la parola democrazia (…) serva ad indicare una forma di governo popolare, tuttavia nel caso nostro, smesso ogni senso politico, non deve significare se non una benefica azione cristiana a favore del popolo”. “Guardisi parimenti ognuno dal ricoprire sotto la denominazione di democrazia cristiana il proposito d’insubordinazione o di opposizione alle legittime autorità”.
È questo, forse, l’ultimo tentativo di mantenere saldo il legame tra la Chiesa e l’esperienza sociale e politica dei cattolici. Con la morte di Leone XIII (1903), il papa che aveva dato sostanza al Non expedit del suo predecessore Pio IX, che vietava ogni partecipazione dei cattolici alla vita politica dello Stato, secondo la formula di don Margotti “né eletti né elettori”, ma li lanciava in una profonda esperienza sociale e amministrativa, il cattolicesimo italiano entrava in una fase nuova, tra partecipazione e contestazione, con il Modernismo che scombussolava la vita ecclesiale e l’ansia di costituirsi in partito per far fronte, nell’arengo della politica, ai bisogni e alle rapide trasformazioni della società.
Un’anima nuova del cattolicesimo
In questi primi anni del Novecento, almeno fino alla fondazione del Partito Popolare di don Luigi Sturzo, nel 1919, è tutto un susseguirsi di spinte, tentativi, progetti di realtà che favoriscano l’ingresso dei cattolici nella vita politica.
Con relative sconfessioni. La formula cara alla Santa Sede è quella nota: deputati cattolici sì, cattolici deputati no. Ed è grazie a questa formula che nel 1904 entra in Parlamento il primo cattolico, il milanese Filippo Meda. Ma proprio questa lieve apertura della Santa Sede all’impegno politico dei cattolici innesca la questione – che sarà una costante della storia politica dei cattolici – dell’autonomia della politica dalle indicazioni della Chiesa e la lunga discussione circa la possibilità e l’utilità di riunire i cattolici in un partito; questione e discussione che dureranno quasi un secolo, con le loro sabbie mobili, qualche volta con fondali melmosi e tante, tante contraddizioni.
La Chiesa di Pio X imbocca la strada dello scioglimento dell’Opera dei Congressi, quindi mette la parola fine al movimento cattolico organizzato, e punta alla collaborazione, in chiave antisocialista, dei cattolici con i liberali moderati. Il mondo cattolico più avanzato, i giovani e gli esponenti del cattolicesimo sociale di leoniana memoria, invece fremono e cercano nuove strade. E, come spiega Pietro Scoppola, in un clima di incomprensioni e di reciproci puntigli, l’incontro con il Modernismo è inevitabile.
Don Romolo Murri lo spiega chiaramente: se il Modernismo tenta una conciliazione tra Chiesa e pensiero moderno, egli è tutto preso dalla conciliazione tra Chiesa e democrazia. L’obiettivo consiste – per dirla con Gabriele De Rosa – in una “operazione di recupero delle masse alla Chiesa” attraverso la rigenerazione della politica, che avrebbe comportato d’altra parte un duplice effetto: da una parte “la deformazione laicista dell’organismo ecclesiale”, e dall’altra la “deformazione clericalistica dello Stato e dell’intiera società civile”. Insomma, da premesse rivoluzionarie sarebbero scaturire conclusioni reazionarie.
Così, dietro le rivendicazioni dell’autonomia della politica, Murri vagheggia “il concetto ideale di uno Stato e di una Chiesa uniti in perfetto accordo, l’idea del braccio secolare, di una tolleranza sospettosa, se non d’una soppressione violenta e sanguinosa dell’errore cui attenda lo Stato in nome della Chiesa e di Cristo, conserva tutto il suo valore oggettivo”. Le idee di Murri si affineranno e spesso cambieranno e finiranno col radicalizzarsi. Ma resta chiaro il sogno infranto (e il progetto politico) di “essere l’anima nuova del cattolicesimo italiano nella vita pubblica” (dalla relazione di Mario Tortonese al terzo congresso della Lega democratica nazionale, Imola 1910).
“Ci accorgemmo – continua Tortonese – operando ed andando, che questo cattolicesimo politicante italiano era troppo vecchio per accogliere un’anima nuova […]; combattuti, messi fuori, vedemmo anche e sperammo che tanta lotta della Chiesa ufficiale e del clericalismo politico non riusciva a toglierci quello che solo nel cattolicesimo ha valore, ed ha un eterno valore, i precetti e lo spirito originario del cristianesimo, la fede nel Dio che è carità, la carità che è Dio in noi, la speranza che è coscienza di una indefettibile vita, stimolo verso una divina rinnovazione, promessa a noi, alle nostre lotte, ai nostri dolori. […].
Volemmo riconciliare cattolicesimo e democrazia; e per democrazia intendevamo, non un partito, una federazione, una scuola, ma tutti i divini affanni di una coscienza umana che vuol rifare la vita e la storia, mettendo in esse la giustizia e la bontà nelle quali si realizza, svolgendosi e accrescendosi, lo spirito; il quale è religioso innanzi tutto e sempre quando sente sorgere in sé, riverente ed eroico, queste creazioni ideali, e diviene economico, giuridico e politico, artistico quando esprime ed esegue. […].
La Chiesa ufficiale si era venuta collocando fuori dalle correnti vive del pensiero e dell’anima umana; e vedemmo che la liberazione politica non poteva essere accompagnata da un’altra liberazione; la liberazione di Cristo dalla sinagoga […]”.
Un’autonomia politica radicale
Siamo alla fase conclusiva dell’esperienza breve, ma significativa, della Lega democratica nazionale, che avrebbe dovuto condurre i cattolici nell’arengo politico e preparare il partito nuovo dal nome inequivoco: Democrazia cristiana. Scoppola intravvede, in questa pagina della storia del cattolicesimo sociale e politico, il momento in cui “i motivi ideologici che ispirano il movimento stesso emergono in piena luce e il dibattito sul problema dei rapporti fra religione e politica si fa più vivo e intenso”. È decisamente un’esperienza di rottura, di rivendicazione, nei confronti del Papa, di un’autonomia politica radicale.
Nel 1910, al tempo della relazione di Tortonese che suona come un consuntivo tristemente negativo dell’esperienza, ormai tutto è finito. L’amarezza per il proprio destino personale porta Murri a giudizi severissimi: il cattolicesimo – afferma – “è condannato a seguire quella che è la politica personale di Pio X, che è politica di spionaggio e di servilismo, condanna inesorabile della cultura e della democrazia, incapace di qualsiasi atto d’amore”.
Se dal punto di vista storico l’esperienza della Lega democratica murriana è fallimentare, essa pone tuttavia temi e contraddizioni che saranno ricorrenti nella cultura politica dei cattolici, soprattutto “di sinistra”: da un lato – annota Scoppola – vi è l’affermazione netta dell’“autonomia dell’azione politica” e la necessità “che la Chiesa anziché impegnarsi essa stessa istituzionalmente in favore di questa o quella scelta politica agisca per il tramite delle coscienze dei credenti fatti più consapevoli della loro libertà e della loro responsabilità; dall’altro invece tende a riassorbire la vita religiosa nel progresso civile e sociale dell’umanità, giungendo ad una pratica negazione della trascendenza”.
Quell’invito murriano ai giovani di “perdersi nella democrazia” ha un’eco chiaramente teologica, cui si accompagna la necessità di una “liberazione politica” affiancata dalla “liberazione della coscienza religiosa”. Tali questioni torneranno, in forme nuove, ogniqualvolta i cattolici si troveranno a fare i conti con la loro identità messa in gioco nell’arengo della polis. Murri, insomma, appare assai più presente nel travaglio dei cattolici che scelgono la strada della politica di quanto non si voglia riconoscere.
Le idee di Murri e di tanti altri della sinistra cristiana pre-fascista mirano al superamento dello Stato liberale, considerato non solo un freno al pieno sviluppo della democrazia, ma portatore di deplorevoli ingiustizie sociali. Ma vi è di più: se per questi cattolici pre-fascisti lo Stato liberale, nel suo agnosticismo e nelle sue derive massoniche, costituisce il moloch che ha distrutto il potere temporale dei Papi e orientato il Risorgimento in chiave anti-cattolica, per quelli cresciuti durante il fascismo e operanti nella nuova democrazia esso costituisce – senza escludere le precedenti censure – l’incubatore stesso della dittatura.
Dietro le quinte vi è sempre la grande tentazione intransigente della costituzione di uno Stato capace di inverare le promesse del Vangelo. È forse su questo piano che le categorie di destra e sinistra si aggrovigliano e si ridispongono in un nuovo canovaccio ideale e ideologico che riapparirà carico di tutti i problemi irrisolti quando la democrazia reale richiederà il contributo di idee di tanti “nuovi” cattolici.
(2 – continua)
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