Nelle società del passato, la condizione di disabilità o di grave menomazione fisica, a causa di malattie, incidenti o disgrazie patite, non era l’oggetto di una marginalizzazione indiscriminatamente ostile. Non potevano ancora venire in soccorso i sostegni dello Stato sociale, che si è impiantato solo in un’epoca molto recente.
Si mantenevano modeste le risorse dell’assistenza alimentata dalla generosità dei privati. Ciò nonostante, i più fragili e senza difese non erano abbandonati al loro destino. Per loro si potevano creare spazi di accoglienza che garantivano la possibilità di destreggiarsi pur in mezzo ad avversità di ogni genere. Tra le pieghe del contesto sociale si costituivano nicchie in cui anche i più sfortunati avevano modo di aggregarsi con i propri simili per condividere una sofferenza che si cercava di sottrarre alle minacce di una disperazione senza sbocchi.
Qui gli inabili al lavoro gravati dall’impossibilità di dedicarsi a una stabile attività remunerativa si incontravano, imbastivano relazioni di mutuo sostegno e, in quanto esclusi dall’arena dei mestieri e delle professioni, venivano ammessi al diritto di godere della beneficenza di chi era in grado di disporre di risorse superflue. Non potendo mantenersi con il lavoro delle proprie mani, diventavano “professionisti” dell’arte della mendicità, raccogliendo elemosine in pubblico, esibendosi come suonatori e cantastorie ambulanti. Ma acquisivano questa prerogativa solo dopo aver fornito le prove, sorvegliate dal controllo della corporazione, di non avere davanti a sé nessun’altra strada per evitare di vivere da parassiti oziosi.
Anche soltanto offrendo ai benestanti l’occasione di esprimere il loro spirito caritativo, i mendicanti “certificati” favorivano l’interscambio fra gli individui e contribuivano a consolidare l’ordine etico che stava alla base dell’edificio della collettività. A modo loro, i poveri consentivano ai ricchi di sentirsi più felici, in pace con la propria coscienza e aperti al premio futuro del Signore della vita e della morte, mentre i ricchi si facevano carico dei disagiati e spartivano con loro il minimo necessario per non soccombere del tutto: “Ogni volta che avrete fatto una di queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, è come se l’aveste fatta a Me”.
Gli sviluppi di questa tradizione organizzativa sono stati paralleli alla grande fioritura delle confraternite nella cristianità di tradizione latina, che si aprì con la rinascita urbana del basso Medioevo. Man mano si dilatò la loro capacità di presa e si articolarono gli orientamenti devozionali a cui si ispiravano le pratiche religiose e le iniziative solidaristiche promosse nelle cerchie dei sodalizi, la forza di attrazione esercitata sui diversi gruppi sociali e professionali poté ramificarsi in tanti rivoli separati, dando vita a realtà associative che si distinguevano per il loro reclutamento non di rado “specializzato”, settoriale, nei casi estremi concentrato anche su una frazione molto ristretta (e al suo interno perfettamente omogenea) del bacino di affluenza degli aderenti.
In altre parole, si mise in moto un processo di ricalco della struttura pluralistica e gerarchizzata del corpo dei fedeli cristiani, che tendeva ad abbracciare le élite più prestigiose così come i ceti mercantili e artigianali delle fasce inferiori di popolazione. In un vasto spazio che dalle libere città dell’Italia padana e dal territorio spagnolo si spingeva fino all’area tedesca e poi oltre ancora, si cominciò ad assistere alla comparsa di scholae, compagnie e “fraternità” consacrate alla tutela dello status capovolto in un senso più pesantemente negativo di tutti gli altri di livello subalterno: quello del mendicante legittimo, cioè dell’adulto incapace di guadagnare una sua autonomia di sussistenza, costretto ad affidarsi ai flussi della pubblica carità per resistere alla pressione delle più elementari esigenze di ordine materiale.
Le prime attestazioni di confraternite dei ciechi, degli zoppi e degli “storpiati” (come si usava solitamente definirle) risalgono alla seconda metà del XIV secolo. Riconducono in particolare all’area veneta della nostra penisola. Ma la frammentarietà delle conoscenze disponibili per una fase così remota non consente di attribuirvi un sicuro primato di originalità inedita. Le associazioni corporative dei mendicanti si moltiplicarono, poi, nei due secoli successivi. La mappa della loro presenza si estese, attraverso canali che non sono facilmente ricostruibili, fino a includere gran parte almeno dei maggiori fra i centri cittadini. A Milano ne risulta attiva una a partire dal 1471. Alla fine del Cinquecento le troviamo funzionanti in terra polacca. Per tutto il Seicento vi dedicarono premure esemplari, nel centro della cattolicità, i papi alle prese con il rigonfiamento quantitativo del pauperismo e le fluttuazioni ondivaghe del vagabondaggio. Si registra una vera e propria marcia di espansione, prolungatasi fino alla metamorfosi sette-ottocentesca degli schemi di gestione del sistema assistenziale, che ha segnato in modo indelebile la cornice in cui si cercava di circoscrivere il mondo della povertà e della precarietà sociale.
Attraverso le “scuole” dei ciechi e degli zoppi l’esercizio della professione anomala del mendicante stabilì un ponte di collegamento fra la struttura religiosa delle comunità civiche e la volontà di difesa degli interessi anche delle parti più umili che entravano a comporla. Le loro confraternite, con i pochi mezzi a disposizione, hanno fatto da filtro selettivo per l’ammissione al diritto della pubblica questua, sancito dai segni di riconoscimento che gli aderenti a questi sodalizi dovevano portare in piena evidenza sull’abito per non essere confusi con i mendicanti abusivi, subissati da una politica fortemente repressiva. Per i mendicanti legittimi hanno definito i luoghi precisi e le “buone maniere” secondo cui impostare la richiesta dei sussidi: senza inutili strepiti, senza risse, astenendosi dal fare ingresso nelle chiese per non essere di eccessivo disturbo. Hanno arginato la facile conflittualità interna sulle poche briciole da spartire e protetto i poveri riuniti in corporazione da ogni forma di concorrenza sleale, come quella dei forestieri non matricolati.
Rivolgendosi a quanti si trovavano relegati ai margini inferiori della collettività sociale, le confraternite dei mendicanti predisponevano anche per loro un mantello di protezioni che, dalle prove delle malattie e dai momenti di crisi più grave, si proiettava verso la morte, i riti di sepoltura, l’impegno della preghiera per i defunti. Facendo così, tenevano inseriti nelle maglie del tessuto cittadino anche gli individui più in bilico e a rischio di precipitare verso il basso. Li innestavano nella piramide della società totale e, nel cuore del regime di vita a cui essi erano forzatamente tenuti, queste confraternite “specializzate” inscrivevano il richiamo a un centro di aggregazione religiosa riservato a uomini dal medesimo profilo di fondo.
Su di loro ricadeva il dovere dell’osservanza di una regola di vita, li si coinvolgeva in una serie di gesti da reiterare nel tempo, in una trama di riti e appuntamenti comunitari che miravano a plasmare la coscienza e i modi di atteggiarsi di ogni singolo io. Sotto la guida di “chapi” investiti dell’autorità di “regere et ghovernare tuti li altri membri”, come recitava lo statuto della confraternita milanese dei mendicanti, gli affiliati erano aiutati a condurre la propria esistenza agganciandola a un organismo modellato come un corpo coeso e solidale. Le libertà di manovra personale erano esigue, le possibilità di riscatto economico ridotte pressoché a zero. Ma un fulcro su cui fare leva era offerto a tutti, e tutti insieme si era chiamati a fornire un apporto, anche se di entità infima, per il bene generale dell’universitas di cui si riconosceva di essere emanazione tutt’altro che solo disprezzata.
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Si fornisce qui l’anticipazione di uno dei temi trattati nel volume di D. Zardin, “La città, i poveri e i marginali. Reti di protezione tra Italia e realtà lombarda agli inizi del percorso moderno” (Milano, Educatt, 2022).
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