Alla fine dell’estate del 1944 nasceva e moriva in poco più di 40 giorni una interessante esperienza politica che viene ricordata come la Repubblica partigiana dell’Ossola.
Ormai scomparsi i personaggi che vi diedero vita, credo che più di una parentesi militare sia stata una prova generale di quella che anni dopo divenne l’Italia repubblicana, anticipando anche la svolta occidentale ed anticomunista del 1948 che porterà l’allora Pci a un lungo periodo di opposizione. Quella che segue è una ricostruzione dei fatti che portarono alla nascita di questa prima realtà democratica.
Le valli dell’Ossola, a nord del Lago Maggiore, nell’attuale provincia di Verbania rappresentano un’area di circa 1.500 kmq. Sono un grande triangolo che si incunea nel territorio elvetico verso il Cantone Vallese al di là delle Alpi e il più facilmente raggiungibile Canton Ticino.
La vallata principale del fiume Toce è ampia, pianeggiante, oggi molto antropizzata, e si dirama in numerose vallate minori che salgono a raggiera verso le Alpi ed hanno il loro centro economico e geografico in Domodossola.
Montagne, a differenza di oggi, allora molto più abitate, attraverso le quali è sempre stato relativamente facile passare in Svizzera, nazione neutrale durante la seconda guerra mondiale.
L’area, popolata anche allora da circa 80mila persone, oggi concentrate molto di più nel fondovalle, non disponeva di risorse alimentari od agricole sufficienti e dipendeva quindi totalmente, per gli approvvigionamenti, da sud. Si trattava allora di una zona molto industrializzata rispetto alla media italiana. L’Ossola “esporta” ancora oggi energia idroelettrica e prodotti metallurgici di trasformazione, ma necessita di approvvigionamenti costanti di materia prima.
Dal punto di vista militare e strategico l’area non era assolutamente rilevante, salvo che per la facilità appunto di passare in Svizzera, aspetto importante per il contrabbando ma anche l’espatrio di ebrei, resistenti, prigionieri di guerra.
Va ricordato anche che l’ampio polmone verde centrale della provincia – ora Parco Nazionale della Val Grande – era allora abitato da numerosi montanari ed esistevano molti alpeggi presso i quali era possibile trovare rifugi di emergenza, in buona parte distrutti nel rastrellamento tedesco del giugno 1944.
Era comunque possibile organizzare colpi di mano anche contro località importanti (Domodossola, Villadossola, Cannobio) rimanendo “coperti” fino a poche decine di metri dall’obbiettivo, con molti abitanti dei paesi delle valli o delle frazioni dei centri maggiori che passavano alternativamente in zone controllate dalle due parti belligeranti anche più volte nello stesso giorno, rendendo di fatto difficili o superflui i controlli.
La gran parte della gente – e me lo ha sempre ricordato di chi visse quegli anni – non stava né di qua né di là, semplicemente sperava che la guerra finisse presto cercando intanto di superare i momenti più duri. In ogni famiglia vi erano poi infiniti casi personali: fratelli divisi e militanti sui due fronti, dissensi, nuclei famigliari divisi dagli eventi.
È la pagina vera e spesso poco conosciuta di un conflitto vissuto con convinzione da minoranze e sopportato con angoscia dalla gran parte della popolazione, che spesso non aveva mai avuto occasione di conoscere altro che il fascismo e la sua martellante azione propagandistica. Così come ogni azione partigiana rischiava di ripercuotersi poi sulla popolazione civile, creando lutti, rappresaglie, vendette che – come avvenne soprattutto dopo il 25 aprile – poco o nulla avevano di politico quanto spesso di conflitto od odio personale.
Le prime attività della resistenza
All’inizio non vi furono azioni partigiane degne di nota, anche se si raccoglievano in montagna – a volte sperando di poter passare facilmente in Svizzera – nuclei di civili provenienti da diverse zone del Nord Italia, ma poi sempre più frequentemente militari sbandati dopo l’8 settembre, renitenti alla leva di Salò, primi nuclei di resistenti. Anche in questo caso erano spesso ragazzi giovanissimi che, come avveniva sull’altro fronte, si trovavano improvvisamente adulti davanti allo sfascio della nazione dopo l’8 settembre. Da sottolineare come molti giovani partigiani salivano in montagna per sfuggire alla chiamata alle armi della repubblica fascista o instradati da amici, parroci, compagni di studi.
“Spesso – la circostanza mi era stata confermata qualche anno fa dal comandante “Arca”, al secolo Armando Calzavara, mio amico personale – questi ragazzi arrivavano in treno a Domodossola o in battello a Verbania dalla Lombardia e cercavano di capire dove fossero i partigiani per poi mettersi in strada, a piedi, verso le montagne. Prima o poi li trovavano, ma innanzitutto rischiavano di brutto e poi non avevano alcuna idea di cosa fosse sul serio fare la guerra. Tante volte li ho rimandati a casa, chissà se ci sono tornati”.
Più organizzati, invece, gruppi di giovani cattolici vicini alle parrocchie lombarde – in particolare di Milano e della Brianza – che venivano instradati tramite una “rete” cattolica e che infatti rafforzarono soprattutto le brigate partigiane “azzurre”.
La prima azione degna di nota fu la “battaglia di Villadossola” avvenuta l’8 e 9 novembre 1943, quando un gruppo di circa 20 partigiani entrarono in paese scendendo dall’impervia e boscosa Valle Antrona senza attaccare – almeno in un primo tempo – il presidio fascista, ma razziando l’ufficio postale e la direzione di due stabilimenti metallurgici dove furono prelevati fondi cospicui e fu anche ucciso uno dei dirigenti.
I partigiani si disimpegnarono il giorno stesso risalendo la vallata e lasciando sul terreno alcuni morti, oltre ad uccidere alcuni tedeschi sulla via della ritirata, atto che nei giorni successivi diede vita ad una sanguinosa rappresaglia.
Il risultato militare fu minimo, ma senz’altro spezzò il periodo di relativa calma che si era protratto da settembre, preoccupò i gruppi fascisti posti a presidio dei singoli paesi (e spesso facilmente isolabili) ed alla popolazione diede un forte segnale di presenza partigiana nella zona.
Un episodio simile si ebbe anche ad Omegna il 30 novembre, ma questa volta l’attacco fu opera di due reparti partigiani molti diversi tra di loro: un reparto di “garibaldini” (comunisti) provenienti dalla Valsesia ed un altro di “autonomi” al comando dell’ex ufficiale dell’esercito architetto Filippo Beltrami, un professionista milanese sfollato nella zona.
Mentre i primi si limitarono ad una puntata in città prelevando armi e derrate alimentari, Beltrami assunse invece per qualche giorno il comando in città – dove pur restarono, indisturbati, ma consegnati in caserma, alcuni reparti fascisti – arrivando (l’episodio non è segnalato solo da Giorgio Pisanò nella sua Storia della Guerra Civile in Italia ma confermato anche dalle fonti antifasciste) a telefonare al comandante fascista della provincia di Novara, il prefetto Dante M. Tuninetti, per annunciargli di “tenere la piazza”.
Un esempio che illumina la personalità di Beltrami, ufficiale di vecchio stampo, borghese, cavalleresco e generoso. Una figura che ebbe grande ascendente sull’opinione pubblica locale e tra quegli ambienti cattolici e liberali che temevano i gruppi comunisti.
Beltrami ebbe rapporti addirittura amichevoli con Tuninetti ed altre autorità fasciste, tanto che i due si incontrarono a lungo arrivando ad una sorta di armistizio di fatto per l’assistenza alla popolazione locale che attraversava un periodo di grave penuria di generi alimentari.
Ritiratosi presto sulle montagne sovrastanti Omegna, Beltrami fu considerato un traditore da parte delle brigate garibaldine di Moscatelli per questi suoi buoni rapporti con le autorità nemiche e quando, poco tempo dopo, si ritrovò – come vedremo – circondato da forze soverchianti nell’abitato di Megolo (centro a mezza costa della bassa Valdossola, nel comune di Pieve Vergonte) nessuno corse in suo soccorso, tanto che morì insieme a numerosi suoi compagni (tra i quali Antonio Di Dio, fratello di Alfredo) dopo una dura lotta durata diverse ore, senza accettare le intimazioni di resa.
Fascisti e tedeschi che l’avevano circondato resero ai caduti – e l’episodio è veramente anomalo in una guerra civile – l’onore delle armi.
(1 – continua)