Il mito degli italiani che non si battono (ma sarebbe più preciso dire che non amano la guerra) è ormai così radicato nell’opinione pubblica mondiale che risulta quasi impossibile demolirlo. Il problema è che questa misera considerazione delle nostre forze armate è diffusa soprattutto tra gli italiani che non conoscono la propria storia.
Quanti hanno mai sentito parlare della resistenza del caposaldo di Gondar in Africa orientale? Gondar? E dove diamine si trova? Importante città nel nord dell’Etiopia, era difesa dai capisaldi Uolchefit e Culquaber. Tenendo conto che il duca Amedeo d’Aosta si era arreso all’Amba Alagi in maggio ci si può rendere conto come la difesa di questo caposaldo fosse un’impresa disperata. Perché combattere ancora e morire? Per l’onore, si potrebbe rispondere, ma ancora di più per impegnare divisioni britanniche che, altrimenti, sarebbero state destinate in Libia o altrove. E così le nostre truppe coloniali si batterono allo stremo per difendere questa posizione con i pochi mezzi a disposizione, compresa una carica di cavalleria nella quale morirono i tenenti Giuseppe Rosso e Vincenzo Pastore. Il presidio di Uolchefit si arrese per fame il 28 settembre 1941 ma Gondar resisteva ancora.
In Russia la Wermacht conseguiva la più grande vittoria della storia militare di ogni tempo, annientando le armate sovietiche che difendevano Kiev. I sovietici ebbero 300mila morti e 600mila prigionieri: un disastro colossale. Ancora una volta il Corpo di spedizione italiano si comportò egregiamente a Pterikovka, mentre sul fronte interno i bombardamenti inglesi si facevano più frequenti e pesanti con decine di morti a Palermo, Crotone, Genova e Torino. Ciò che più deprimeva la popolazione italiana era la costante diminuzione della disponibilità di generi alimentari. Dal 29 settembre nei ristoranti fu proibita la distribuzione di minestra per tre giorni la settimana mentre il pane veniva razionato con 200 grammi giornalieri a persona.
Intanto la guerra stava per essere vinta dall’alleato tedesco, ma c’era chi non si rassegnava a fare da comparsa. La X flottiglia Mas dopo le perdite terribili subite a Malta tentò un nuovo attacco alla base di Gibilterra. Il sommergibile Sciré comandato dal capitano di corvetta Junio Valerio Borghese salpò da La Spezia il 10 settembre, attraversò lo Stretto di Gibilterra il 16 e si posò sul fondo della baia di Cadice il 17. Il 20 il sommergibile si riportò ad Algeciras e fece uscire gli equipaggi a bordo dei siluri a lenta corsa (“maiali”) guidati da sei operatori. Nel corso della notte i tre mezzi d’attacco evitarono le pattuglie britanniche e cercarono di entrare nel porto di Gibilterra. Solo l’equipaggio formato da Visentini e Magro ci riuscì ma, alle 4:45, non ci sarebbe stato il tempo per attaccare le navi da guerra in fondo alla rada, evitare la luce del giorno e porsi in salvo. Così i tre equipaggi minarono due navi cisterna e una motonave che saltarono in aria il mattino dopo: 30mila tonnellate di naviglio andarono a fondo sotto il naso dei britannici mentre i sei operatori avevano già riguadagnato la costa spagnola e, in seguito, riuscirono a tornare in Italia.
A questa élite di combattenti appartenevano anche gli equipaggi degli aerosiluranti. Senza negare l’eroismo e l’abnegazione degli stormi da caccia e da bombardamento, è innegabile che, nella lotta sul Mediterraneo, furono gli aerosiluranti a cogliere i successi più prestigiosi e sempre pagando un prezzo altissimo. Una tipica azione di quel periodo fu l’attacco al convoglio Halberd che, partito da Gibilterra il 24 settembre 1941, era composto da nove trasporti ed era scortato da tre corazzate, cinque incrociatori, una portaerei e diciotto cacciatorpediniere. La battaglia iniziò con i voli di ricognizione, sempre molto pericolosi a causa della lentezza e vulnerabilità degli apparecchi. Dalla base di Ragusa decollò l’idrovolante del sottotenente Leonardo Madoni, già medaglia d’argento, che, il 26 settembre, venne attaccato da un caccia della portaerei. Alla prima raffica, Madoni veniva crivellato di proiettili, risultando ferito alla testa, alla gola e alla spalla. I comandi del velivolo erano tranciati ma il pilota riusciva ugualmente a farlo ammarare. Non era finita: l’aereo britannico continuò per un’ora a mitragliare il ricognitore immobile sul mare e Madoni, per quanto stremato dal dolore e dalla perdita di sangue, diresse la difesa e suggerì al marconista come riparare la radio. Venne stabilito un contatto con la base ma l’aereo iniziò ad affondare e l’equipaggio salì sul battellino di salvataggio. I soccorsi arrivarono dopo dieci ore, durante le quali Madoni aveva incitato i suoi uomini a resistere. Il sottotenente, trasportato all’ospedale di Barce, decedeva poche ore dopo.
La mattina del 27 settembre un altro idrovolante, un Cant Z506, comandato dal sottotenente Giovanni Del Vento, avvistava il convoglio nemico e comunicava la posizione. Una squadriglia di undici S79 decollava alle 11:50 da Cagliari Elmas e un’altra, composta da undici S84 faceva altrettanto da Decimomannu. Quest’ultima squadriglia era la prima a giungere sull’obbiettivo nei pressi dell’isola de La Galité e il suo comandante, maggiore Arduino Buri, decideva di attaccare subito, mentre la scorta di caccia impegnava i Fulmar inglesi decollati dalla Ark Royal. L’attacco iniziava alle 13:00 e il fuoco della contraerea inglese si rivelava subito micidiale. Due S 81 attaccavano insieme a bassa quota ma quello del capitano Rotolo veniva colpito in pieno, sbandava e andava in collisione con quello del tenente Barro. I due aerei cadevano in mare e non vi erano sopravvissuti. Gli altri S84 lanciarono i siluri e gli equipaggi credettero, erroneamente, di aver colpito qualche bersaglio.
Un quarto d’ora dopo la fine del primo attacco arrivava la seconda ondata composta dagli S79 comandata dal colonnello Riccardo Helmut Seidl. Proprio in quel momento avveniva uno dei fatti più incredibili della guerra: il sergente Luigi Valotti, ventuno anni, puntò il suo biplano Cr42 verso la scorta dei cacciatorpediniere inglesi, compiendo picchiate e tonneau senza sparare un colpo. Le navi inglesi sprecarono un mucchio di colpi contro quel singolo biplano per sei minuti critici prima che questi si inabissasse, non si sa per un colpo e o per una manovra troppo azzardata. Intanto l’aereo pilotato dal colonnello Seidl attaccava la corazzata Nelson in coppia con quello del tenente Bartolomeo Tomasino sfidando la contraerea e sganciando a 600 metri. Uno dei due siluri colpì in pieno la corazzata provocando uno squarcio di tre metri e mezzo per cinque. Mentre un’altissima colonna d’acqua si alzava dalla fiancata della nave da guerra i due aerei si abbassavano ancora di più quasi sfiorando le alberature della Nelson ma, inseguiti dalla contraerea, venivano tutti e due abbattuti. Anche un altro aereo, quello del capitano Giusellino Verna veniva abbattuto dalla caccia avversaria.
L’attacco si concludeva qui, ma non era finito il dramma nel cielo e nell’aria. L’idrovolante di Giovanni del Vento era rimasto nell’area per soccorrere gli aviatori abbattuti ma veniva attaccato da ben sei Fulmar. La difesa era vigorosa e due caccia nemici venivano abbattuti, ma l’aereo veniva crivellato di proiettili ed era costretto ad ammarare. Del Vento disponeva l’abbandono del velivolo ma un caccia si abbassava a mitragliare i naufraghi, ferendo il pilota e colpendo alla bocca l’osservatore Giuseppe Majorana. Questi, con il volto devastato e incapace di articolare un suono qualsiasi, indicò a cenni la rotta da seguire. Quando la costa era ormai vicina, Majorana si spegneva tra le braccia dei suoi compagni.
Tutto ciò mentre la nostra flotta da battaglia, uscita per intercettare il convoglio, non riusciva nell’intento e ritornava alla base senza aver sparato un colpo.
In questa sola azione furono conferite sette medaglie d’oro al valor militare: tutte alla memoria salvo quella a Giovanni del Vento.
Eroismo da disperati? E che cosa si dovrebbe dire di quei giovanissimi volontari che sfidarono l’esercito e la burocrazia per andare in guerra e diedero vita all’epopea de “i ragazzi di Mussolini”? Una storia pazzesca, eppure istruttiva per capire il clima dell’Italia di allora, specie tra chi era nato dopo la marcia su Roma e aveva tra i diciotto e i vent’anni, cresciuto nel mito del Duce, educato allo sbaraglio esistenziale, alla mistica del sacrificio.
Parole vane? Retorica? Forse per quei signori che cianciavano di eroismo dalle pagine dei giornali di regime senza rischiare nulla. Eppure, allo scoppio della guerra, insensata e suicida, ben 25mila giovani si arruolarono volontari. Volevano combattere ad ogni costo, ma il maresciallo Pietro Badoglio diffidava di questi giovinastri e provvide a smobilitarli mentre si trovavano radunati nei locali della fiera di Padova. La reazione dei ragazzi fu furibonda: devastazioni, incendi, saccheggi, risse senza che si riuscisse a por fine alla vera e propria insurrezione di questi ragazzacci che chiedevano di combattere. Alla fine ne rimasero solo 2mila e anche gran parte di questi fu rimandata a casa. In tutto ne rimasero poche centinaia che furono inquadrate dal cinquantenne maggiore Fulvio Balisti, già compagno di D’Annunzio a Fiume e, dopo una lunghissima lotta con la burocrazia dell’esercito e un duro addestramento, inviati in Libia dove giunsero, per l’appunto, nel settembre del 1941. Chi legga I ragazzi di Mussolini scritta da Alpheo Pagin, uno di quegli “scappati di casa”, proverà una duplice sensazione: da una parte lo stupore per un entusiasmo che non viene mai meno nonostante lo Stato, l’esercito, il Partito, lo stesso Mussolini, dimostrino di tenere in non cale quei ragazzi; dall’altro una nostalgia per un amor di patria così gratuito, per uno spirito di sacrificio che troppo spesso è stato sfruttato con un cinismo spietato. Ritroveremo i “Mussolini’s boys” nelle prossime puntate.
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