Smirne, Alessandria e Beirut. Per quattro secoli queste città simili e diverse hanno tenuto aperta una finestra tra Oriente e Occidente, in nome del cosmopolitismo, della tolleranza e della pluralità culturale. La profonda vocazione alla pace d’ognuna, non ha loro impedito di subire vicende segnate da forti contrasti e spesso da corale, tragica sofferenza. Abbiamo qui già visto e detto di Beirut, vedremo forse più avanti di Alessandria. La dura cronaca dei giorni recenti induce ora a fermarci su Smirne.



Ovvero “mirra” secondo l’antichissimo significato. Venuta a fortuna attorno al 1500 a.C. insieme alla non lontana Troia, ne subì le decadenze, conobbe la rifondazione ad opera di Alessandro Magno nel 333 a.C. e la ricostruzione per volontà di Marco Aurelio dopo un primo, disastroso terremoto nel 178 d.C. Il cristianesimo delle origini pose Smirne fra le Sette Chiese dell’Apocalisse ed è certo che la comunità post-apostolica la ebbe tra i suoi luoghi di riferimento: soprattutto con San Policarpo, allievo di Giovanni l’Evangelista, che qui fu vescovo e martire.

Occupata dai Bizantini, poi dai Turchi, nel 1261 venne ceduta ai Genovesi, quindi ai Cavalieri Ospitalieri e infine riconquistata dagli Ottomani, che la tennero per più e più secoli. Consentendo la semina e la radicazione di comunità d’origine europea: italiana (genovese e veneziana) o francese o austriaca; che, a partire dal tardo medioevo, s’erano stabilite nei territori ottomani, evolvendo i propri tratti nazionali in un’identità originale, intraprendente e affascinante: quella dei “levantini”.

A Smirne come a Costantinopoli, gli eredi di capitani delle repubbliche marinare e di nobili cavalieri e cadetti, edificarono quartieri (i fondachi) e attività e stili di vita memorandi, adunandosi in quella che molti definivano la “nazione latina” d’Oriente. E vi spiccavano in special modo gli italo-levantini.

Alla fine del XIX secolo, nella Turchia europea erano circa settemila, concentrati a Galata, cittadina “genovese” divenuta quartiere di Istanbul. A Smirne, nella Turchia asiatica, agli inizi del Novecento, vi era una colonia italiana di circa seimila persone. In quei decenni, letterati come Willy Sperco iniziarono a identificarsi come “italo-levantini della Turchia”, per differenziarsi dai “levantini” dell’Egitto (italo-egiziani) e del Libano (italo-libanesi).

All’inizio del Novecento la “profumata Izmir” – come ricorda Philip Mansel in Levante. Splendore e catastrofe nel Mediterraneo – “aveva cinquecento caffè, tredici cinema e vari ragtime-bar. Le ragazze portavano gli abiti appena qualche centimetro sopra il ginocchio […] Si pubblicavano trentaquattro giornali, le feste da ballo spingevano la loro eco sino a Parigi” e le musiche erano un mix unico di influenze greche, turche, balcaniche, ebraiche e italiane. Le fanciulle e i rampolli delle maggiori famiglie studiavano dalle aristocratiche Soeurs de Notre-Dame de Sion o dai Frères des Écoles Chrétiennes. Il romanziere Norman Douglas definiva Smirne il posto più piacevole della terra e il console generale austriaco Charles de Scherzer scriveva: “Smirne illumina come un faro tutte le altre province dell’Impero Ottomano”, E proprio i consolati generali erano i luoghi delle maggiori aggregazioni, della mondanità certo, ma soprattutto del mondo della finanza e degli affari. I nomi d’alcuni in esso fondamentali sono ancora conosciutissimi: i veneziani Braggiotti e Giustiniani; i Giudici e i Macripodari, i Missir di Lusignano, i genovesi Parodi e i francesi Barry e Pharaon (La Banque Pharaon et Chiha, poi a Beirut), molti di questi certo legati o imparentati con i potentissimi beirutini ortodossi Alfred e Moussa Sursock.

La guerra italo-turca del 1911-12 porrà una prima, violenta cesura alla douceur de vivre smirniota, con una generale espulsione dei cittadini italiani: riammessi e indennizzati dopo il Trattato di Losanna del 1912, ma non tutti in verità rientrati per una ancor piccola diaspora che li vedrà spostarsi quali in patria, quali in Libano e in Egitto.

Una ben più grande diaspora sarà per Smirne quella seguita all’immenso incendio del settembre 1922, forse voluto da Mustafa Kemal Atatürk a far nuova pulizia etnica d’armeni e di greci, comunque di stranieri cristiani. La notte fra il 12 e il 13 avrebbe divorato una delle cosmopoli più superbe dell’intero Levante, la sua civiltà e la sua cultura, con violenza di fiamme tale che dal monte Athos i monaci ne potranno scorgere i bagliori. Venne definita da Winston Churchill “un’orgia infernale” e fu un dies a quo. Smirne non sarà mai più la stessa, le comunità italo-levantine partiranno per il Dodecaneso italiano, per la Grecia, per l’Italia. I veri pogrom seguenti la seconda guerra mondiale e soprattutto quelli del settembre 1955, saranno d’una violenza tale da ridurre vertiginosamente il numero degli italiani (degli armeni e degli ebrei) del Levante.

Il recentissimo terremoto ha mostrato attraverso i media una megalopoli di oltre quattro milioni di abitanti, cementificata, commerciale, convulsa. Oggi ancor una volta profondamente ferita. Nelle immagini degli scavi febbrili e dei recuperi lieti, si scorgono (come scriveva Antonia Arslan in La strada di Smirne) le piccole storie degli uomini qualunque che la grande storia vorrebbe annullare. Non sempre riuscendoci.