Toni Negri nel corso degli anni aveva forse perso un po’ di smalto, ma il suo pensiero era rimasto attentamente seguito, non da giovani con le molotov nel tascapane, ma da analisti sociali ed economici di mezzo mondo. Certamente non aveva perduto l’originalità intellettuale, la stessa sicurezza d’analisi che tanti, proprio a sinistra, hanno maldestramente tentato di ricalcare.



Negri, gira e rigira, sembrava essere tornato alla teorizzazione di un must degli anni Settanta, il salario garantito. “La contemporaneità ha l’evidenza materiale di molti punti di vista: del precario che chiede un salario garantito, dell’informatico che ha bisogno di software libero, della casalinga che rimane in casa per allevare i figli, dello studente che vuole più formazione. Perché non retribuire la vita prendendo atto del fatto che ciascuno, semplicemente per il fatto che vive in una società produttiva, è a sua volta produttivo?”. “Più vado avanti e più mi convinco che l’operaismo, insieme al post-strutturalismo francese e al pensiero dei post-coloniali, è stato una delle cose più serie della seconda metà del Novecento. È stato anche il mio modo di essere marxista, prima di riprendere il pensiero di Spinoza. Ma oggi il cambiamento del lavoro, che definiamo cognitivo, impone uno scarto ulteriore. Il salario politico è l’unica soluzione”.



La voglia colta di stupire? Nel 2001, ad un mese dall’attacco alle Torri Gemelle, confessò di essere “dispiaciuto del fatto che la Casa Bianca fosse stata mancata dal quarto aereo”.

Anche in quanto a frequentazioni Negri non si smentiva. Suo grande estimatore è stato ad esempio il líder máximo venezuelano Chávez. “Per consolidare il suo potere, Chavez vuole comandare anche le forze armate e la banca centrale, manipola i mezzi di informazione, sta costruendo una rete con i Paesi che hanno regimi dittatoriali. E sapete chi è stato il suo consulente per la riforma costituzionale, che sarà oggetto di un finto referendum? Toni Negri. Mi chiedo cosa ci stia a fare Toni Negri in Venezuela, dove ci sono estremisti pagati per scatenare la violenza nelle strade”: lo disse il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, in un’assemblea organizzativa a Roma. “Chávez mi ha danneggiato – replicò però Negri in un’intervista raccolta da Walter Mariotti per Il – esibendo perfino un mio libro in Parlamento. Con lui siamo alla nostalgia del caudillo”.



Antonio Negri nacque nel ’33. I genitori (Aldina Malvezzi e Nerio Negri) abitavano a Padova, in una casa di periferia. Toni andò a scuola dai gesuiti dell’Antonianum; era bravo, un bel futuro davanti. Aveva appena 10 anni quando i partigiani “giustiziarono” il fratello bersagliere, un fascista convinto, inquadrato nel battaglione Mussolini della Repubblica Sociale. Poco tempo dopo morì anche il padre Nerio. Toni passò al liceo classico Tito Livio, ancora bei voti. Fuori da scuola, era parrocchia e chiesa. Dopo il liceo, si iscrisse a Filosofia. Erano gli anni della goliardia e del giornaletto “Il Bo”. Negri entrò nella Gioventù italiana Azione cattolica, dove insieme a Mario Rossi, l’anticomunista che fondò nel 1948 i Comitati civici, era cresciuto un gruppo di giovani attivi: Enzo Scotti, Dino de Poli, Wladimiro Dorigo, Giovanni Vattimo, Emanuele Milani.

Nel ’54 Negri abbandonò la carica di delegato diocesano per entrare nella Democrazia cristiana. Subito dopo attraversò un periodo di forte crisi e se ne andò in Sicilia, a lavorare con il sociologo Danilo Dolci. L’esperienza durò poco, non aveva tempo da perdere, doveva laurearsi. Nel 1955 discusse la tesi e diventò assistente del rettore Enrico Opocher. Nel 1958 entrò nel Partito socialista, nel ’60 fu eletto consigliere comunale. Adesso lavorava con Raniero Panzieri, dopo Morandi uno degli uomini più influenti del Partito socialista, l’ideatore dei Quaderni rossi, la rivista che si spostava progressivamente su posizioni radical-borghesi, una cultura anticomunista che affascinerà una parte delle generazioni degli anni Settanta. Toni Negri scrisse anche sul quindicinale socialista Progresso Veneto e diventò azionista della Marsilio, la casa editrice di Cesare De Michelis, fratello di Gianni, amico di famiglia dell’ex moglie – Paola Meo – figlia del famoso architetto veneziano.

Il rapporto di Toni Negri con i socialisti veneti negli anni Sessanta si dimostrò molto fruttuoso, tanto che gli permise di uscire con il suo nuovo giornale, Classe Operaia, che sarà stampato, per un certo periodo, proprio nella tipografia di De Michelis. La rivista chiuderà nel ’66 con l’autoscioglimento del gruppo.

Il 1964 fu per Negri il periodo dell’impegno universitario, dei suoi saggi, e delle interminabili discussioni con Tronti, Arquati e un ventenne Cacciari, pupillo del professore padovano, che nel ’69 entrerà nel Pci da posizioni non comuniste. Cacciari era uno dei più attivi divulgatori del pensiero negativo, legato al gruppo formatosi attorno alla casa editrice Adelphi di Roberto Calasso, seguace del pensiero gnostico del banchiere Raffaele Mattioli, fondatore nel 1946 di Mediobanca e padre spirituale di Enrico Cuccia. Negri nel frattempo preparava il concorso che gli avrebbe fatto guadagnare nel 1967 una cattedra, quella di Dottrina dello Stato. Il trentaquattrenne professore padovano ottenne l’ordinariato e, realizzando quello che aveva prefigurato, ebbe la possibilità materiale di dedicarsi alla politica. Con l’immancabile Cacciari e con Asor Rosa, Negri visse la breve esperienza di Contropiano; poi con l’esplodere delle lotte operaie e studentesche incontrò quel gruppo di studenti, tra cui Piperno e Scalzone, con i quali avrebbe fatto nascere Potere operaio.

Di questa organizzazione Negri fu teorico e stratega. Il professore voleva un’organizzazione di tipo particolare, ma non comunista. Potere operaio serviva come laboratorio a Toni Negri per creare le condizioni culturali e psicologiche in molti giovani al salto di qualità necessario ed approdare a quel radicalismo dove l’elemento terroristico era una “variante prevista”. Il frutto fu la nascita di Autonomia operaia, il movimento dei “militanti nella società”, in una “società non più organizzabile” e dunque da distruggere.

Negri scriveva molto: come Il dominio e il sabotaggio, elaborato su misura per il movimento del ’77. Era un pamphlet della rivolta, ne vendette più di ventimila copie. Scriveva: “Ogni azione di distruzione e di sabotaggio ridonda su di me come segno di colleganza di classe. Né l’eventuale rischio mi offende: anzi mi riempie di emozione febbrile, come attendendo l’amata”. Una tecnica comunicativa che eccitava gli animi di giovani non proprio formati dal punto di vista teorico marxista, ma subito ed impulsivamente reattivi, troppo pronti a diventare strumenti inconsapevoli dell’eversione anticomunista.

E Padova, città politicamente clerico-fascista, divenne in breve la capitale dell’Autonomia. L’azione dei gruppi dirigenti di Potere operaio e di Lotta continua, organizzazione nata anch’essa da esponenti di Potop, voleva costruire nelle nuove generazioni uno stato d’animo ipercritico a sinistra. Per arrivare al rifiuto della legalità sancita dalla Costituzione, nata dalla lotta antifascista. Si doveva partire da quel livello di democrazia raggiunto per andare oltre.

In Il dominio e il sabotaggio Negri scriveva: “Nulla rivela a tal punto l’enorme storica positività dell’autovalorizzazione operaia, nulla più del sabotaggio. Nulla più di quest’attività di franco tiratore, di sabotatore, di assenteista, di deviante, di criminale che mi trovo a vivere. Immediatamente risento il calore della comunità operaia e proletaria, tutte le volte che mi calo il passamontagna”.

Il 7 aprile 1979 Toni Negri fu arrestato con varie accuse. Dapprima, dai giudici romani, gli fu imputata la partecipazione al sequestro e all’uccisione di Aldo Moro e gli fu attribuita la telefonata che annunciava la breve scadenza dell’esecuzione della sentenza a carico del leader democristiano. L’accusa si dimostrò errata: la chiamata era stata effettuata da Morucci. In seguito, d’essere l’ideologo delle Brigate Rosse e mandante morale dell’omicidio di Aldo Moro. Quasi tutte le accuse, incluse quelle relative a 17 omicidi, caddero perché ritenute infondate durante il periodo dell’arresto. Fu processato invece per i reati di “associazione sovversiva” e “insurrezione armata contro i poteri dello Stato”: nel 1984 al processo di primo grado venne condannato a 30 anni di carcere. Nel 1986 gli vennero attribuite pene supplementari per responsabilità morale in atti di violenza fra attivisti e polizia negli anni Sessanta e Settanta.

Negri fu riconosciuto colpevole, in particolare, di concorso morale nella fallita rapina di una banca ad Argelato, episodio in cui fu assassinato un carabiniere. Il processo, che coinvolse lui e gli altri 80 inquisiti del 7 aprile, attirò l’attenzione di Amnesty International, che accusò le autorità italiane di aver commesso numerose irregolarità nel procedimento contro Negri e di aver manipolato la vicenda. Successivamente, in appello, cadde con formula piena l’accusa di insurrezione armata; rimasero le imputazioni per banda armata, associazione sovversiva e la partecipazione, sotto il profilo del concorso morale, alla rapina di Argelato in cui morì il brigadiere dei carabinieri Andrea Lombardini; la pena fu quindi ridotta a 12 anni di reclusione.

Toni Negri durante il periodo di carcerazione preventiva accettò la proposta di Marco Pannella di candidarsi alla Camera per il Partito Radicale. Le elezioni premiarono il gruppo e Negri il 26 giugno assunse la carica di deputato e uscì dal carcere di Rebibbia. Il 27 settembre però il Parlamento concesse l’autorizzazione all’arresto, un’autorizzazione ormai inutile: Negri era già fuggito in Francia, grazie all’aiuto di Donatella Ratti e di Nanni Balestrini, con l’impegno di rientrare in Italia dopo un giro di conferenze nelle capitali europee. In Francia Negri rimase invece 14 anni, come scrittore e docente universitario, coccolato dalla dottrina Mitterrand, ma non solo. Negri, ad esempio, in un’occasione ha ricordato con simpatia Bettino Craxi perché, disse, mentre era a Parigi “Craxi, allora presidente del Consiglio, mi fece sapere che i servizi stavano architettando qualcosa su di me, consigliandomi di essere cauto: per questo ancora gli sono grato”.

Nel 1997 rientrò volontariamente in Italia per finire di scontare la sua pena. Il rientro seguiva una sorta di scambio a distanza di “garanzie” per sé ed altri soggetti in condizioni analoghe alle sue. Finì di scontare la pena (prima come reclusione, poi come semi-libertà tra Rebibbia e la sua casa di Trastevere) nella primavera del 2003. Visse poi con la compagna, la filosofa e docente francese Judith Revel, tra Venezia e Parigi.

“Oggi domina un estremismo di centro. E i giudici fanno politica”. Frase di Negri, anche se potrebbe sembrare di qualcun altro. “Berlusconi – aggiunse – è un personaggio teorico (…). La libertà è l’uguaglianza. In questo anche il mio maestro Bobbio, che mi portò in cattedra, si sbagliava. Se non c’è uguaglianza non c’è libertà. Oggi il comune è l’elemento rivoluzionario, perché prima si dipendeva dal padrone, oggi invece solo da noi stessi”. E ancora: “Il Sessantotto italiano, che arriva nel ’77, è l’ultima esperienza gramsciana. Con la dissoluzione della Fiat e la scoperta del precariato, che all’inizio è felice perché non si va in fabbrica, non si è condannati al destino dei padri. Amo il precariato ma detesto il mio lavoro nel declino che mi è imposto, si sentiva dire. Non si trattava di un’ambiguità psicologica, ma biopolitica. La stessa che oggi spinge a non pagare le tasse. Prima ero sfruttato, oggi sono indebitato”.

Il sette aprile

Il 7 aprile 1979 iniziò almeno due anni prima. Quando il sostituto procuratore Pietro Calogero, mentre tutti non accreditavano al movimento di Autonomia Operaia alcun spessore, iniziava invece ad indagare, partendo da casa, cioè dai Collettivi politici padovani. Nel 1977 i primi arresti e i primi interrogatori. In Procura sfilano Ferrari Bravo, Del Re, Bianchini, Negri. Ma è presto, nell’inchiesta non c’è sostanza: pochi mesi dopo i docenti sono prosciolti. Ma l’indagine continua. Calogero è convinto che il terrorismo in Italia si muova dietro gli ordini di un’unica regia, finalizzata “all’attacco al cuore e alla base dello Stato”. In pratica, pensa che tra Br e Autonomia le differenze siano solo di facciata. È questo il suo “teorema”, sulla base del quale scatta, appunto il 7 aprile del 1979, la maxi operazione della Digos, spalmata tra Padova, Roma, Milano, Rovigo e Torino. Decine e decine di “autonomi” vengono identificati, molti sono arrestati, compresi docenti universitari. I capi di imputazione, per quei mandati firmati da Calogero, sono complessi, e fanno riferimento a reati associativi: “…in concorso tra loro e con altre persone, essendo in numero non inferiore a cinque, organizzato e diretto un’associazione denominata Brigate Rosse, costituita in banda armata con organizzazione paramilitare e dotazione di armi, munizioni ed esplosivi, al fine di promuovere l’insurrezione armata contro i poteri dello Stato e di mutare violentemente la costituzione e la forma di governo sia mediante la propaganda di azioni armate contro le persone e le cose, sia mediante la predisposizione e la messa in opera di rapimenti e sequestri di persona, omicidi e ferimenti, incendi e danneggiamenti, di attentati contro istituzioni pubbliche e private. E di aver diretto ed organizzato un’associazione sovversiva denominata Potere Operaio e altre analoghe associazioni variamente denominate ma collegate fra loro e riferibili tutte alla cosiddetta Autonomia Operaia Organizzata, dirette a sovvertire violentemente gli ordinamenti costituiti dello Stato sia mediante la propaganda e l’incitamento alla pratica della cosiddetta illegalità di massa e di varie forme di violenza e lotta armata (espropri e perquisizioni proletarie; incendi e danneggiamenti di beni pubblici e privati; rapimenti e sequestri di persona; pestaggi e ferimenti; attentati a carceri, caserme, sedi di partiti e associazioni) sia mediante l’addestramento all’uso delle armi, munizioni, esplosivi e ordigni incendiari sia infine mediante ricorso ad atti di illegalità, di violenza e di attacco armato contro taluni degli obiettivi precisati”.

Tra gli arrestati riecco Antonio Negri, ordinario di Dottrina dello Stato all’Università di Padova; Luciano Ferrari Bravo, assistente; Emilio Vesce, direttore di Radio Sherwood e della rivista Autonomia; Oreste Scalzone, fondatore dei Comitati comunisti rivoluzionari; Mario Dalmaviva, esperto pubblicitario, leader torinese di Potere operaio; Giuseppe Nicotri, giornalista de Il Mattino di Padova; Nanni Balestrini, poeta; Alisa Del Re, Guido Bianchini e Sandro Serafini (tutti e tre lavorano alla Facoltà di Scienze politiche all’Università di Padova); Carmela di Rocco; Ivo Gallimberti; Massimo Tramonte; Paolo Benvegnù; Marzio Sturaro. Sfuggono invece all’arresto Franco Piperno, professore di Fisica all’Università di Cosenza; Giovanni Morongiu; Gianfranco Pancino, medico; Roberto Ferrari, direttore di un magazzino a Milano.

E sempre quel 7 aprile da Roma arriva un altro mandato di cattura contro Antonio Negri, accusato di essere (insieme a Moretti, Alunni, Micaletto, Peci, Faranda, Morucci e altri 16) l’organizzatore della strage di via Fani e del sequestro Moro. Lo si ritiene il telefonista che chiamò a casa dell’onorevole Moro durante il sequestro. Di più: Negri è indiziato anche dell’omicidio del giudice Riccardo Palma; delle gambizzazioni del direttore del Tg1 Emilio Rossi e del preside della Facoltà di Economia e Commercio Remo Cacciafesta; dei dirigenti democristiani Publio Fiori, Gerolamo Mechelli, Valerio Traversi e Raffaele De Rosa.

Il 16 aprile l’inchiesta viene trasferita a Roma, ritenuta territorialmente competente. A Padova rimangono gli imputati “minori”, quelli per cui non scatta il coinvolgimento nell’insurrezione armata. Il 7 luglio Giuseppe Nicotri viene scarcerato dopo che il suo alibi è stato controllato, solo tre mesi dopo l’arresto. Nello stesso giorno viene emesso il primo ordine di cattura “sostitutivo”. Per Negri, Scalzone, Ferrari Bravo, Vesce, Dalmaviva, Zagato e Piperno (sempre latitante) l’accusa è ora di aver “promosso ed organizzato nel territorio dello Stato una associazione sovversiva costituita da più bande armate variamente denominate, destinate a fungere da avanguardia militante per centralizzare e promuovere il movimento verso sbocchi insurrezionali”. E nel nuovo ordine di cattura viene estesa anche agli altri imputati l’accusa di aver “promosso un’insurrezione armata contro i poteri dello Stato”.

Il 12 giugno 1984 viene emessa la sentenza di primo grado del troncone padovano. Le condanne ammontano a più di 500 anni di carcere. La posizione di due imputati che collaborano con la giustizia sono stralciate. Tredici sono assolti per insufficienza di prove, uno con formula piena; 34 sono giudicati colpevoli di reati associativi; 21 di reati specifici. Per l’accusa non c’erano prove per sostenere l’insurrezione armata. La durata delle condanne detentive va da 1 anno e 4 mesi a 30 anni, la pena assegnata a Negri, riconosciuto colpevole di vari reati: dal concorso nell’omicidio del brigadiere Lombardini (rapina di Argelato), all’omicidio di Carlo Saronio, al tentato sequestro Duina, a vari reati minori come furti e attentati e infine di banda armata e associazione sovversiva. Tra gli altri imputati “eccellenti” Oreste Scalzone viene condannato a 20 anni, Luciano Ferrari Bravo ed Emilio Vesce entrambi a 14 anni per associazione sovversiva e banda armata.

Il processo si chiuderà solo nel 1986. Quasi tutti gli imputati vanno assolti: Toni Negri, Luciano Ferrari Bravo, Gianfranco Pancino, Franco Tommei, Emilio Vesce, Alisa Del Re, Carmela di Rocco, Guido Bianchini, Alessandro Serafini, Fausto Schiavetto. Vengono invece condannati tutti i membri del Fronte comunista combattente. Nel 1987 arriva infine la sentenza di secondo grado della Corte d’assise d’appello romana. Vistose le riduzioni di pena. Vengono assolti Emilio Vesce, Luciano Ferrari Bravo, Lucio Castellano, Paolo Virno, Alberto Magnaghi, Jaroslav Novak, Giuseppe Nicotri e altri. La Corte assolve Negri “dal delitto di insurrezione armata contro i poteri dello Stato perché il fatto non sussiste” e da numerose altre accuse e gli riduce la pena a 12 anni di reclusione. La sentenza d’appello viene confermata in Cassazione nel 1988.

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