Nella prima parte di questo racconto abbiamo visto come i profughi della Valle di Ledro, rilocati in Boemia e Moravia, fossero riusciti ad avviare un processo di integrazione con le popolazioni locali grazie soprattutto all’iniziativa dei giovani che, spinti dalla loro naturale curiosità, avevano stretto amicizia con i propri coetanei, imparando la lingua locale e aiutando quindi gli adulti a interagire con i cechi.



Insieme a questo, determinante fu il sostegno morale e materiale che i parroci diedero agli sfollati sparsi sui territori cechi. L’aver trovato elementi in comune nella devozione cristiana e mariana aveva funzionato come ulteriore elemento di integrazione tra le due comunità, grazie anche al grande lavoro dei parroci della Valle.



Preoccupazioni e responsabilità dei profughi adulti

Gli sfollati adulti e anziani, però, come accennato in precedenza, fecero molta più fatica ad accettare l’inevitabilità dell’esodo in terra straniera. Pur stentando molto, lentamente riuscirono a trovare un certo equilibrio, aiutando boemi e moravi nel lavoro nei campi o in altre mansioni utili.

Per comprendere meglio il punto di vista degli adulti coinvolti nell’esodo è sicuramente utile attingere al diario di Angelina Beretta, che segue quello di don Viviani nella struttura del libro. Il racconto di questa madre, sgomenta ma devota, che confida nella divina Provvidenza e nella Vergine Maria, è molto appassionato e permette di comprendere bene l’angoscia della situazione in cui si venne a trovare.



Il marito, Alfonso Rosa, era partito in precedenza per l’America in cerca di fortuna, lasciando Angelina e i quattro figli. Il racconto del viaggio è carico di paura e angoscia: arrivati a Salisburgo, scesi dal treno per pernottare “in una mattonaia”, con scene caotiche e sofferenza tutto intorno, la signora Beretta scrive: “Tornai dai miei figli e ci ponemmo in un canto a passare la notte […] seduta sul mio fagotto con le mie figlie appoggiate alle ginocchia e i figli ai piedi, coperti con gli scialli da testa che portai meco passai un’altra notte fra le lagrime, un vento soffiava forte, e ora si udiva singhiozzi da una parte ora dall’altra”.

Dal diario emergono le preoccupazioni spirituali di una madre, per sé e per i propri figli. Il conforto che Angelina riceve dal partecipare alle funzioni religiose in terra straniera è reso in maniera molto emozionante: “Oh, quale consolazione pel nostro cuore addolorato al sentire il canto della S. Messa pel latino e vedendo fare tante comunioni si piangeva pensando alla nostra amata Chiesa”. Nulla però pareva poter cancellare il grande desiderio di ritornare a casa, nella Val di Ledro.

Il ritorno a casa: un legame da tramandare

Il viaggio di ritorno vede emozioni ribaltate rispetto a quello di andata: i giovani sentivano grande tristezza nel lasciare un posto che li aveva accolti e cui si erano affezionati, per le amicizie e quel paesaggio così diverso e “meno monotono” della Valle chiusa dalle montagne in cui si apprestavano a tornare; gli adulti, invece, erano desiderosi di tornare, in un ambiente più familiare, nella speranza di ricominciare la vita cui erano più abituati. Trovarono tutti macerie e distruzione, con tempi di ricostruzione sconosciuti e tantissime domande senza risposta. Ma erano sopravvissuti alla guerra grazie a quell’esodo e a quella gente che aveva avuto pietà di loro e li aveva accolti e aiutati. 

Dopo il ritorno in patria, soprattutto i giovani sentirono forte il desiderio di non perdere le amicizie costruite con i coetanei cechi; per questo motivo avviarono una fitta corrispondenza epistolare. Ma anche gli adulti si sentivano legati a quelle genti che li avevano accolti e aiutati, condividendone le difficoltà e le privazioni della guerra. Così, con il passare del tempo, è cresciuto anche il desiderio di incontrarsi nuovamente per rinnovare quell’amicizia.

Ma la cosa era tutt’altro che semplice. Ancora Gisella Gasperi racconta: “Io ricevevo di continuo lettere dalle mie amiche e dai miei conoscenti e il desiderio era quello di poter tornare a Nový Knín a riabbracciare quelli che avevo amato e a rivedere il cimitero dove era sepolto mio padre. Ma le difficoltà della vita e la famiglia e i numerosi figli non mi permettevano il lusso di un viaggio simile“. Solo nel 1962 Gisella sarebbe riuscita a realizzare il sogno e tornare in Boemia: “Andai dritta alla casa della mia amica Antonia Kvasniková“, ricorda commossa. “Stando sulla strada, sotto la sua finestra, chiamai ‘Antonia!’ e sentii la sua voce gridare ‘È arrivata la Gisella!’. Aveva riconosciuto la mia voce. Ed erano trascorsi 44 anni!”.

Oggi la grande amicizia tra i discendenti dei profughi ledrensi e i loro corrispondenti in Boemia è tenuta in vita dall’Associazione Amici della Boemia e della Moravia con iniziative di scambio culturale, in collaborazione con la controparte ceca Spolek přátel Ledra (Associazione Amici di Ledro). In molte famiglie di ledrensi ancora oggi sono di casa ricette tipiche della terre di Boemia e Moravia, tramandate di generazione in generazione assieme a quelle parole ceche così importanti per gli sfollati di oltre cento anni fa: pane, patate, farina e sale qui sono anche chleba, brambory, mouka e sůl. E non può non colpire la facilità con cui anche l’inno ceco fu imparato e tramandato dai ledrensi rientrati in patria: si intitola “Kde domov Můj”, che vuol dire, appunto “Dov’è la mia Patria”.

Un destino di amicizia tra popoli in cui il concetto stesso di patria trascende e supera idealmente i confini geografici. Una lezione di accoglienza e integrazione che tutti possiamo fare nostra, oggi.

P.S. Durante una ricerca finale sul web per verificare la correttezza delle informazioni riportate in questo articolo, mi sono imbattuto nella notizia della morte di Giuliano Pellegrini, che mi ha colpito e rattristato. Sono molto grato e riconoscente a Giuliano per la sua straordinaria gentilezza e disponibilità. Il nostro breve incontro è una cosa che porterò sempre nel cuore.

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