Quella dell’esodo in Boemia e Moravia della popolazione della Valle di Ledro durante la prima guerra mondiale è una storia ancora troppo poco conosciuta, forse anche perché l’attenzione divulgativa tende a concentrarsi su fatti relativi alla seconda guerra mondiale.
È una storia esemplare di integrazione, amicizia e accoglienza in condizioni difficilissime. Credo sia molto importante riscoprire oggi questi eventi i cui protagonisti appartengono a due paesi membri della stessa Unione Europea, che per prima avrebbe bisogno di riscoprire e divulgare storie e racconti come questo.
La grande evacuazione della Valle di Ledro fu decisa dall’Impero austro-ungarico alla vigilia della dichiarazione di guerra del Regno d’Italia, nel maggio 1915. La Valle era in zona di confine e l’evacuazione avrebbe protetto i civili, garantendo allo stesso tempo maggiore libertà di movimento alle truppe che si andavano posizionando su quella che sarebbe diventata la linea del fronte. I profughi ledrensi sarebbero stati rilocati in diverse città e villaggi delle terre ceche di Boemia e Moravia.
Sia in Italia che in Repubblica Ceca la memoria di quegli anni difficili è celebrata con appuntamenti e pubblicazioni che, in alcuni casi, hanno avuto ampia diffusione nei media a livello nazionale (soprattutto in Boemia). Sull’archivio video della televisione ceca, per esempio, è tuttora visibile, in chiaro, il documentario “Bohemia Mia” realizzato nel 2010. Mentre è risultato praticamente impossibile visionare un altro documentario, di produzione Rai, intitolato “In Fuga dalla guerra. Da Ledro alla Boemia”. A questa mancanza ha sopperito però il preziosissimo lavoro dell’Associazione culturale Amici della Boemia e della Moravia, attraverso la figura del suo presidente Giuliano Pellegrini, che abbiamo potuto incontrare di persona lo scorso agosto nel birrificio di famiglia a Ledro. L’Associazione ha raccolto negli ultimi anni moltissime testimonianze intervistando testimoni diretti e raccogliendo i diari scritti durante l’esodo da diversi profughi. Abbiamo avuto la possibilità di visionare alcuni di questi diari, e il signor Pellegrini ci ha anche concesso di visionare in anteprima un libro di prossima pubblicazione, contenente le testimonianze dirette di alcuni sfollati. Il volume, che dovrebbe uscire a dicembre, permette di rivivere la storia attraverso punti di vista differenti.
Bambini e adolescenti: una fuga che sa di avventura
Per le generazioni più giovani l’esodo nelle terre ceche fu vissuto come un’avventura, un viaggio che si prefigurava emozionante. Quelli dell’evacuazione furono “Giorni tristi ed indimenticabili […]. Non tristi per me e per le mie sorelle che eravamo giovani: noi non ci rendevamo conto della gravità della tragedia che incombeva sulla nostra valle”. Sono parole della prima testimonianza riportata nel libro: quella di Gisella Gasperi, che all’epoca non aveva ancora sedici anni. A lungo andare anche ai ragazzi fu chiaro che quell’avventura presentava grandi difficoltà: le condizioni di viaggio, la preoccupazione e lo struggimento che i genitori e gli anziani non riuscivano a nascondere ridimensionarono in parte l’euforia della partenza. Sempre la Gasperi ricorda come la madre, la sera prima dell’evacuazione, “impose a noi tre sorelle di andare a letto. Ho l’impressione che non riuscisse a dominare la commozione e che non volesse far vedere a noi le sue lagrime”. La guerra e la deportazione avrebbero causato grande dolore alla famiglia Gasperi, con il fratello di Gisella che sarebbe presto stato dichiarato disperso al fronte, mentre il padre, ultrasessantenne, sarebbe morto in Boemia.
I giovani furono comunque determinanti per la riuscita dell’integrazione tra sfollati e locali; spinti dalla curiosità, impararono rapidamente alcune parole fondamentali nella lingua locale e aiutarono così gli adulti a interagire con i cechi. Grazie all’aiuto dei giovani, alle tessere annonarie e ai sussidi per profughi, i ledrensi poterono iniziare a fare acquisti che garantirono un sostanziale miglioramento nelle condizioni di vita.
L’aspetto religioso e l’impegno di De Gasperi
Un altro fattore decisivo per l’integrazione fu senza dubbio quello religioso. In molti casi le comunità di italiani e cechi trovarono nella religiosità un punto di incontro fondamentale. Le celebrazioni solenni, come quelle che si tenevano alla basilica di Svatá Hora (Monte Santo) a Příbram, furono eccezionali sotto questo punto di vista. Gli sfollati potevano poi contare sull’aiuto dei parroci della Valle, agevolati nella loro opera dalle ampie concessioni garantite dall’Impero (come la libertà di viaggiare gratuitamente su tutta la rete ferroviaria). Così, di fatto, i curati si trovarono ad essere responsabili del benessere materiale dei profughi oltre che di quello spirituale.
Il libro contiene una testimonianza diretta di questo grande impegno materiale e spirituale: il diario di don Girolamo Viviani, parroco di Molina, Legòs e Barcesino. Il racconto è, naturalmente, molto formale; mostra, con dovizia di particolari, l’evoluzione della situazione nei vari villaggi boemi e moravi, il coordinamento di vari gruppi di lavoro da mandare nei campi e nelle fabbriche locali, le nascite, le visite ai profughi per la loro cura pastorale…Grazie ai buoni uffici di don Viviani i profughi ricevettero “una ventina di quintali di farina gialla” per poter tornare a produrre la loro amata polenta. I cechi la consideravano “cibo per maiali”, per cui la vendettero a un prezzo abbordabile, con grande gioia dei ledrensi. Don Viviani ricorda anche un evento molto significativo, ovvero la visita dell’onorevole Alcide De Gasperi ai profughi in Boemia. De Gasperi fu molto attivo nel sostegno ai profughi durante la Grande Guerra, impegnandosi molto presso le istituzioni del tempo per garantire ai connazionali un trattamento dignitoso. “Chi avrebbe pensato che quell’uomo dall’apparenza tanto umile”, racconta don Viviani nei suoi diari, “sarebbe stato il restauratore dell’Italia, l’affossatore del fascismo […], il liquidatore della monarchia, il fondatore della Repubblica?”. L’impegno dei parroci fu di fatto il collante che permise agli sfollati di rimanere virtualmente uniti davanti alle difficoltà, grazie alla loro grande religiosità e al conseguente rispetto per l’autorità morale dei prelati.
(1 – continua)
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