Ogni vita che sia abbastanza lunga finisce per abbracciare epoche diverse. Ogni esistenza è un ponte fra passato e futuro ma ad una sola condizione: che sia intensamente vissuta. Vivere intensamente il reale significa dare la vita stessa, non in un breve impeto, ma distillandola giorno per giorno, ora per ora.
Questo non vale solo per la nostra epoca frenetica, piena di cambiamenti ma anche per chi viveva nel XIX secolo, tempo di rivolgimenti epocali. Ed è questo il caso di monsignor Frédéric-François-Xavier-Ghislain de Mérode, nato a Bruxelles il 20 marzo 1820, settimo figlio del conte Felix de Mérode e di Rosalie de Grammont, morto a Roma il 12 luglio 1874.
Si tratta di un nome ignoto ai più che viene trattato nei libri di storia in modo sommario, di solito appioppandogli l’epiteto di “fanatico”. Un po’ poco per descrivere una vita avventurosa e feconda come la sua. Per capire un uomo del suo calibro bisogna partire dalle radici, dalla sua educazione, come fa il Besson in questa sua opera dal titolo Xavier de Mérode: ministro della guerra ed elemosiniere nella Roma di Pio IX pubblicata nel 1886 e oggi rieditata da Ares a cura di Guglielmo Gualandris.
Una cosa è certa: de Mérode non è mai stato “libero”, nel senso che attribuiamo a questa parola oggi, perché era spinto alla fede e al mestiere delle armi da una tradizione familiare ben radicata. De Mérode era enraciné a tal punto che si ha l’impressione che la sua vita non potesse essere diversa.
La sua famiglia risaliva all’epoca carolingia ed era una nobiltà “di spada” con diversi avi morti sul campo di battaglia per il re. La tradizione materna era conservatrice e antigiacobina, quella paterna tendeva più a un’educazione liberal-cattolica con uno zio morto nella difesa di Bruxelles nel 1830, durante l’insurrezione che portò il Belgio ad affrancarsi dal dominio olandese. Il dato comune era che la morte faceva parte della definizione della vita e la possibilità di incontrarla non era il peggiore dei mali: il disonore, l’ozio, la fiacchezza morale erano prospettive ben peggiori. Così possiamo meravigliarci (e dopo la meraviglia, riflettere su noi stessi) leggendo questa lettera che suo cognato, il conte Charles Forbes René de Montalembert, uno tra più eminenti politici del suo tempo, gli indirizzò al fine di chiarire la vocazione dell’allora diciottenne Frédéric Xavier.
Nella lettera Montalembert dissuadeva il giovane cognato dal seguire il consiglio di un monaco sulla scelta di una vita matrimoniale a soli diciannove anni. “Siete troppo giovane”, disse, “troppo inesperto ancora per fondare una casata. È possibile domare i sensi solo dando loro soddisfazione? Alla vostra età, un Mérode deve essere un soldato e non un marito. Andate a trascorrere sotto le armi questa esperienza che vi porta via, e imparate a vivere con i vostri simili sotto un giogo un po’ più difficile da sopportare di quello di un maestro di studio. Vedrete il male, ma lo eviterete, perché vi spaventerà. Dopo aver servito cinque o sei anni, la vostra persona avrà acquisito una certa fermezza, vedrete chiaramente nel vostro destino, saprete dove costruire e, qualunque cosa farete, giustificherete il vostro motto: Plus d’honneur que d’honneurs”.
Più onore che onori. Questo il motto dei de Mérode e il fatto che possiamo sentire lontano da noi questo motto non depone a favore della nostra salute spirituale. Ma Frédéric Xavier, dopo aver frequentato il collegio militare, si arruolò nella Legione straniera e sfidò la morte combattendo in Algeria. Dopo quell’esperienza de Mérode comprese che il mestiere delle armi non poteva bastare e che la sua vocazione era un’altra: servire Cristo e la Chiesa.
Fu sacerdote, vescovo, poi ministro delle armi per il papa Pio IX per il quale aveva un’obbedienza e devozione filiali: spirito battagliero e mordace, non sopportava la Curia romana ed entrava spesso in conflitto con vescovi e prelati, troppo lenti e letargici per il suo eccezionale dinamismo. Nel 1859, in pochi mesi, costruì un esercito pontificio quasi dal nulla in previsione dell’attacco allo Stato della Chiesa sferrato dai rivoluzionari e dal governo piemontese nel 1860. La sconfitta di Castelfidardo e la perdita della piazzaforte di Ancona nel settembre del 1860 non scalfirono la sua fama di uomo energico e capace, “un grande ministro in un piccolo Stato” ma anche un perdente della Storia.
Ma non è forse questo che ci accomuna a Frédéric-Francois de Mérode? In fondo anche noi, compreso il lettore di queste righe, se attirato dal personaggio, dovrà constatare che è bello resistere contro la barbarie nichilista che avanza, il grande nulla che tutto sembra sommergere. E allora proprio de Mérode, così lontano da noi per ambiente e cultura, può rappresentare una figura luminosa quanto fondamentale per la ricostruzione di un’Europa e di un’Italia cristiana.
L’opera di Besson è esemplare per noi, qui e ora, perché narra di come un uomo reagisce a una sconfitta apparentemente catastrofica come quella del 1860, quando lo Stato pontificio fu ridotto al solo Lazio, perdendo Marche e Umbria. Nel 1864 de Mérode fece costruire la grande piazza davanti a quella che sarebbe stata la stazione Termini, tracciando via Firenze, via Torino e via Palermo. Costretto a lasciare l’incarico di ministro delle armi, de Mérode si diede alle opere di carità, altro retaggio familiare, con l’educazione dei bambini e la costruzione di conventi di suore che assistevano i bisognosi. E poi, il suo capolavoro, il grande piano urbanistico che la nuova amministrazione del Comune di Roma accettò e fece propria nel 1871 nel quartiere di via Nazionale che, per i primi anni, si chiamò appunto via de Mérode.
Inoltre, a coronamento dell’opera di una vita, de Mérode incoraggiò e sostenne finanziariamente il colossale lavoro del cavaliere Giovanni Battista De Rossi, archeologo che riscoprì le catacombe di Roma sull’Ardeatina. Viene spontaneo chiedersi dove de Mérode trovasse i danari per sostenere tutto questo: non certo dalle scarne finanze vaticane. Risposta: coi proventi della vendita al governo italiano di appezzamenti di terreno su cui sarebbe stata costruita la Roma che conosciamo oggi, mediante una speculazione finanziaria di altissimo livello.
Contemplare la vita di de Mérode, deceduto nel 1873, risulta quindi edificante sotto diversi aspetti avendo come basi l’onore e la carità, la fedeltà alla tradizione e l’indipendenza di giudizio. Un mix davvero interessante anche perché, come ebbe a dire una volta, “quando si sta con la Chiesa, si è abbastanza monarchici e abbastanza liberali”. Ma la sua forza era la preghiera e l’amore per Cristo. Come scrive il Besson, “aveva, per difendersi nella sua purezza inviolabile, tre angeli che preservavano da ogni incidente coloro che accompagnavano: la fede, che protegge lo spirito dall’orgoglio; la mortificazione, che purifica il corpo; e la carità, che anima e sostiene il cuore nel giusto cammino”.
Uomo di transizione? Sì, ma la sua grandezza fu nel non stare a piangere sulla fine del potere temporale del papa, arroccandosi in uno sdegnoso rifiuto del dato storico quale, oggi, è il rischio corso da tanti cattolici tradizionalisti. Antigiacobino e controrivoluzionario, de Mérode era anche intriso di moderna cultura liberale e cattolica: una combinazione micidiale per i nemici della Chiesa. Questo era de Mérode e oggi abbiamo la possibilità di ripercorrere il suo cammino, sperando e pregando di poter anche noi cambiare la realtà intorno a noi in un mondo che cambia ma che non ci toglie né la possibilità di agire né la responsabilità di farlo.
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