Tutti noi abbiamo ricevuto un nome quando siamo nati. A ogni neonato viene imposto un nome perché dall’essere nessuno diventi qualcuno, diventi lui, con la sua identità unica e irripetibile. Come si spiega allora il tema di questo Meeting? Si tratta di un verso di Karol Wojtyla, in una poesia dedicata alla Veronica: Nacque il tuo nome da ciò che fissavi. Vale per questa donna, certamente. Nella Veronica, infatti, il nome è legato non alla nascita, ma a un incontro. Può valere anche per noi?



In nessuna epoca come nella nostra si è provata una così grande nostalgia della propria nascita. Oggi si ha l’urgenza di nascere di nuovo; e si torna con la memoria alla propria infanzia, in cui si viveva di quel che ci davano e si rispondeva al nome con cui ci chiamavano. Pedro Almodóvar ha rappresentato questa nostalgia nel suo ultimo film, Dolor y gloria. E García Lorca, in una lettera scritta a ventidue anni a un amico, confessava: “Ora ho scoperto una cosa terribile (non dirlo a nessuno). Io non sono ancora nato. Staremo a vedere se nasco. La mia anima non si è per nulla aperta”. Altre coscienze acute del nostro tempo hanno percepito l’urgenza di nascere di nuovo. Albert Camus ha scritto pagine immaginifiche sulla sua nascita, nel romanzo postumo Il primo uomo, in cui mette in scena un alter ego, Jacques Cormery, per descrivere il proprio venire al mondo.



Ma cosa comporta un’autentica coscienza della nascita? Mi è tornata in mente una conversazione tra lo scrittore Giovanni Testori e don Luigi Giussani. Il libro che la contiene si intitola Il senso della nascita e trascrive una conversazione che Testori e Giussani ebbero nel febbraio del 1980. Osserva Giussani: “Io dico che l’aspetto di gemito che c’è nella gioventù […] è proprio questa assenza. È come se la nascita non fosse presente; e come se non avessero ancora raggiunto la coscienza di questa dipendenza. Vale a dire dell’essere stati voluti. Allora la risposta che diamo a questa identità tra il dolore e la speranza dipende se crepuscolarmente è emerso in loro il presentimento della loro nascita […]; vale a dire del sentimento dell’essere stati voluti. Perché il sentimento supremo è quello d’essere voluti. Quindi il loro modo di reazione dipende se crepuscolarmente questo presentimento s’è fatto largo tra le nubi dense, oppure no”.



Senza un sentimento o presentimento come questo, la memoria della nascita resta superficiale e, prima o poi, si perde. Da qui un disorientamento radicale, un’incertezza profonda sulla verità di sé. Come risposta a questo sbandamento, la modernità ha indicato la ricerca interiore: si confidava ancora nel fatto che il soggetto, da solo e attraverso un meticoloso esame del proprio io, potesse arrivare a conoscere il suo vero volto. Eppure, nessuno arriva a conoscere se stesso in forza di un solitario approfondimento interiore. Tanto che la percezione oggi diffusa è di una disgregazione del soggetto, disintegrato in tanti volti. Una percezione che si ritrova nella musica che ascoltano, canticchiano e ballano i nostri giovani. La perdita del sentimento della nascita, dell’unità donata dal primo palpito, li conduce a una scomposizione in frammenti diversi. Questa esperienza è cantata dagli Switchfoot in Twenty-four. Tutto si rompe in 24 pezzi: una cosa diversa per ogni momento del vivere.

È possibile incontrare, nell’ambito della normale vita che conduciamo, qualcuno che ricomponga i frammenti? Una presenza che abbia il potere di far rinascere l’io? In un lungo poema di Pedro Salinas, La voce a te dovuta, c’è un avvenimento esterno che irrompe, l’incontro con l’amata. Si tratta di una presenza che ha scelto il poeta e, in questo modo, lo ha fatto uscire di nuovo dal niente: “Quando tu mi hai scelto / – fu l’amore che scelse – / sono emerso dal grande anonimato / di tutti, del nulla”. Una nuova nascita. Eppure, nell’esperienza di un amore, si teme. Lo nota ancora Salinas: “ E sto abbracciato a te / senza chiederti nulla, per timore / che non sia vero”.

A quale realtà affidarsi, che possa resistere alla distanza, al disincanto, alle delusioni e al passare del tempo? Esiste qualcosa che si può trovare e che non si perda? È col fuoco di queste domande che voglio investire certi episodi del Vangelo; in cui Cristo chiama per nome coloro che incontra – “Maria!”, “Zaccheo!”, “Matteo!” -, avviando rapporti pieni di stima, storie così radicali da essere destinate a giungere fino in cielo. L’evangelista Luca attesta un’assicurazione di Gesù: “I vostri nomi sono scritti nel cielo”. Erano stati anzitutto, da lui, pronunciati sulla terra. Questo continua a succedere, posso testimoniarlo. Sì, si può sperare di nascere di nuovo.

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