Irina non è venuta in Italia a causa della guerra. Lei c’era già, da almeno trent’anni. Lei non si è fermata a dire, dopo la fine dell’Unione Sovietica, “che si stava meglio quando si stava peggio”.
Come tante altre sue amiche non ha aspettato che arrivasse quel benessere che tutti avevano promesso. È andata in Italia a cercarlo, per lei e per la sua famiglia, lasciata in un villaggio vicino a Kherson. I bambini erano troppo piccoli per portarli con sé. A loro doveva pensarci la nonna. Il marito forse avrebbe potuto seguirla. Era un bravo stuccatore, ma all’inizio non era facile trovargli un lavoro in Italia. Poi, quando Irina ha cominciato a guadagnare un po’ e con la maggior parte di quei soldi è stata in grado di mantenere la famiglia, perché lasciare il Paese, gli amici ed un lavoro per il quale non era più necessario darsi tanto da fare?
Irina non ha perso del tutto i contatti con loro. E così per molto tempo, una volta all’anno, su uno di quei pulmini stracarichi di emigrate e dei loro pacchi-dono è andata, attraversando mezza Europa, in quella che era la sua casa.
Dopo un po’ l’ha trovata anche non poco rimodernata. Da tre anni è anche in ordine. Qualche malalingua dice che è stato anche merito di Ljuda che la frequenta sempre più spesso.
Già, ma ora è scoppiata la guerra. Il marito, Ivan, è stato preso dall’esercito e non si sa bene dove è finito.
Con lui, o da qualche altra parte, c’è anche Igor, il figlio più grande. Ma Natasha, la figlia, e i due nipoti, della guerra non ne vogliono più sapere. Hanno anche provato l’occupazione dei russi e anche adesso che, per ora, se ne sono andati, non vogliono restare con i pochi khersoniani rimasti.
E poi fa ormai troppo freddo e sono stufi di mangiare le scatolette che mandano loro gli amici occidentali.
Poi hanno Irina, in Italia, un Paese mitico per molti ucraini, un Paese amico.
E poi la mamma, la nonna, insomma Irina, in tutti questi anni deve sicuramente essersi fatta una posizione.
Be’, ora è badante, assunta ufficialmente dopo tanti anni in cui era pagata in nero. Inoltre ha in affitto un grande monolocale, in una città come Milano, che, come è noto, è la terza città più cara d’Europa.
Detto, fatto, più o meno. Arrivati tutti nel monolocale. Certo la nonna spesso non c’è perché deve dormire dalla signora, e così c’è un po’ più di posto. Naturalmente c’è il problema della registrazione, della vaccinazione, del permesso di soggiorno. Per fortuna ci sono anche sportelli riservati agli ucraini, dove però nessuno parla russo o ucraino. Gli italiani sono accoglienti, gentili, ma nessuno poteva immaginare che la loro burocrazia fosse così simile a quella sovietica.
Comunque fanno il tifo per gli ucraini e dicono che presto vinceremo. Certo, speriamo che poi vinceremo, che vinceremo tutti insieme, ma per adesso i morti ce li mettiamo solo noi ucraini.
Della prospettiva della pace non parla quasi più nessuno. Anche quelle belle bandiere multicolori sono quasi sparite. Si vedono ultimamente più che altro tante bandiere rosse, che alla maggior parte degli ucraini non accendono un buon ricordo.
Irina ora, almeno al lavoro, sta meglio. La signora la tratta bene. Non è come quella simpatica ma un po’ isterica sciura milanese che si arrabbiava quando Irina non capiva che i “curnitt”, che doveva comprare, erano i fagiolini.
Purtroppo i rapporti con un’altra badante, Inna, la bielorussa, si sono molto raffreddati. All’inizio anche Inna era contro la guerra, ma da quando ha perso un nipote proprio in quella guerra, non la tratta più come prima. Anzi, proprio non vuole neanche incontrarla.
Per fortuna che adesso ci sono i nipoti, bravi ragazzi, seri, obbedienti. Speriamo che non imparino troppo dalla maggioranza dei loro coetanei italiani.
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