Oxfam è una Ong internazionale che opera per ridurre le povertà intervenendo con iniziative di aiuto e sostegno alle popolazioni povere secondo le priorità di bisogno che emergono nelle diverse realtà. È presente anche in Italia con sedi aperte in quasi tutti i capoluoghi importanti. Svolge anche nel nostro Paese molte attività contro le povertà intervenendo per sostenere i bisogni dei più poveri.



Fra le tante iniziative ha anche centri di aiuto al lavoro. Incontra chi vuole uscire dallo stato di indigenza e cerca, attraverso le reti dei servizi pubblici e di amici e sostenitori, possibili attività lavorative che permettano di recuperare un’autonomia economica.

Oxfam ha presentato in questi giorni un suo rapporto sul lavoro in Italia che mostra alcune intelligenti originalità per leggere alcuni fenomeni nuovi che caratterizzano il lavoro nel nostro Paese.



Il titolo del rapporto “Disuguitalia” già dice un giudizio sulla realtà che è stata rilevata. “Sottopagato, discontinuo, sfruttato, insicuro e dal valore sociale scarsamente riconosciuto…”. È con queste parole iniziali che il rapporto si apre perché la prima parte è dedicata all’analisi della povertà lavorativa e di come la crisi pandemica ha accentuato la presenza di working poors e ha fatto aumentare il rischio povertà anche in chi un lavoro ce l’ha.

I lavoratori con basse retribuzioni (cioè con meno dei due terzi della retribuzione oraria mediana) sono cresciuti costantemente fino a oltre un quinto dei lavoratori dipendenti. Ma sia questi numeri che i dati della povertà sono risultati già noti grazie al lavoro di molti rilevatori e soprattutto per il buon lavoro dell’Istat.



Ciò che rende particolare il lavoro presentato è che non ci si ferma alla denuncia, ma come recita il sottotitolo “Ridare valore, potere e dignità al lavoro” si propongono analisi basate sull’esperienza fatta dai centri di ascolto e solidarietà aperti sul territorio e raccontando esempi positivi di reazione contro le forme pesanti di sfruttamento, siano esse nuove o antiche.

È dall’esperienza delle persone incontrate che derivano le fattispecie di abusi più diffusi fra i lavoratori che subiscono il ricatto in assenza di tutele:

– pagamenti incongrui o forfettari senza la possibilità di accedere alla visione del contratto o della busta paga regolare;

– orario effettivo più lungo del contrattualizzato senza riconoscimento degli straordinari;

– contratti a tempo parziale a copertura di lavoro a tempo pieno;

– demansionamento contrattuale rispetto alle mansioni reali;

– false attribuzioni di assenze ingiustificate per ridurre la busta paga; 

– ricatti legati alle procedure dei permessi di soggiorno per lavoratori extracomunitari.

Sono questi gli abusi rilevati con maggiore frequenza e validi in tutto il Paese, dai ristoranti del centro di Milano ai campeggi pugliesi. Queste aree senza tutele accentuano e pesano maggiormente sulle caratteristiche negative che contraddistinguono il nostro mercato del lavoro. La crescita dei Neet, il basso tasso di occupazione femminile e le differenze nord-sud sono esacerbate dalla presenza di ulteriori forme di diseguaglianza sui posti di lavoro.

Vengono però poi messe a fuoco due realtà che indicano che anche di fronte a forme di sfruttamento che sfiorano lo schiavismo è possibile reagire e costruire modi di lavorare che restituiscono dignità al lavoro.

La piaga del caporalato non è nuova per i lavoratori di molti settori. In particolare, per i lavori agricoli è tuttora una forma di sfruttamento che richiede costanti aggiornamenti legislativi e interventi repressivi sui campi. Verso i lavoratori immigrati si sono poi verificate forme di sfruttamento disumane. L’associazione NO CAP si propone esattamente di intervenire contro il caporalato costruendo un modello di filiera agricola che coinvolgendo tutti gli attori delle diverse fasi assicuri equità e sostenibilità economica e sociale. A dare vita a questa iniziativa è stato Yvan Sagnet dopo aver partecipato e promosso il primo significativo sciopero di braccianti stranieri a Nardò nel 2011. L’associazione si propone col marchio NO CAP di promuovere prodotti che mantengano un prezzo di mercato, ma che hanno alle spalle produttori e lavoratori che operano nella legalità e nel rispetto dei contratti di lavoro. Assicurano poi servizi di alloggio e trasporto mettendo fine alle indecorose baraccopoli.

Altro esempio è la cooperativa Robin Food, che nasce a Firenze fra giovani rider. I soci hanno tutti lavorato nella consegna di cibo per i marchi più famosi. Sappiamo tutti delle traversie di questi lavoratori che pagano anche la difficoltà della definizione del loro lavoro: è subordinato o autonomo? La gestione attraverso piattaforme governate da algoritmi ha per diverso tempo lasciato alimentare il dubbio. Ora le tutele dei lavoratori, i riferimenti contrattuali per i minimi salariali e le tutele per la salute e contro le discriminazioni sono finalmente entrate in vigore.

Detto ciò su come è migliorata la situazione del settore rispetto al primo periodo, i giovani di Robin Food si propongono di creare un esempio di rider che diano piena dignità a un’attività destinata a espandersi. Contratto da dipendenti per tutti, organizzazione del lavoro pianificata anche per i singoli, attenzione a valorizzare le offerte del territorio e sostenibilità ambientale dei mezzi usati.

Nuovo modo di lavorare in campagna e rider in coop sono due esempi che indicano la possibilità di reagire al degrado del lavoro portato dalla perdita di centralità della dignità del lavoro avvenuta in questi anni.

Ma la centralità del lavoro è troppo importante per le persone perché non vi sia una nuova stagione di ricerca di nuovi modelli di produzione e di economia che siano compatibili con il bisogno di senso che guida il rapporto con il proprio lavoro di tutti tutti noi.

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