Padre A. ora è qui da noi e per la Pasqua, quella ortodossa (domenica 16 aprile scorso, ndr), ha pensato di raccogliere le sue pecorelle disperse un po’ dovunque, anche dall’Ucraina. Quale posto migliore per celebrare la Pasqua, se non a casa, ad Assisi, la città della Pace e di san Francesco? Dopo aver partecipato a esercizi spirituali “molto cattolici” si sono ritrovati tanti parrocchiani che non si vedevano ormai da mesi.
Sono gli stessi parrocchiani che padre A., quando tutti erano ancora in Ucraina, aveva salvato dagli invasori, russi, buriati e ceceni, che avevano occupato la città imponendo un clima di violenza riversatosi su tutti quelli che non avevano fatto in tempo a scappare o che non erano in grado di scappare.
Nascosti, ammassati nelle case e nella canonica, avevano aspettato con pazienza, ma anche nella paura del peggio, il ritorno dell’esercito ucraino. Nel frattempo erano già spariti i giornalisti occidentali e i rappresentanti delle organizzazioni umanitarie, alcune delle quali, per la verità, sembravano più interessate a raccogliere informazioni che a occuparsi dei bisogni della gente.
Con le truppe più o meno russe erano arrivati anche i loro giornalisti, più interessati a filmare per il loro pubblico finte azioni di guerra che a documentare la situazione. Un bel carro armato davanti alla chiesa era la garanzia che neanche Gesù potesse più scappare e, nello stesso tempo, un’involontaria difesa da mali peggiori. Poi le visite inaspettate al parroco. Qualche soldato russo aveva chiesto una benedizione che non si nega neanche ai cani (almeno così molti preti fanno in Italia).
Qualcun altro chiedeva se non era possibile aiutarlo a scappare (sic). I giovani buriati (mongoli) spiegavano semplicemente di essere lì solamente per 50 dollari al giorno. I ceceni, con il loro spiccato senso degli affari, avevano proposto di aprire una specie di corridoio umanitario in cambio di soldi, o di altro. Quando erano arrivati gli aiuti umanitari “made in Moscow” la gente li aveva rifiutati. Chi si fidava a uscire dalla canonica e, poi, perché leccare la mano del nemico?
Accettavano di buon grado solo i disperati, i senza tetto, senza patria, senza rispetto di sé stessi. Dopo poco gli aiuti umanitari russi erano spariti e addirittura qualche soldatino cominciava a chiedere al parroco se aveva qualcosa da mangiare. Il parroco, nel frattempo, era costretto a trattare coi russi, anche con durezza ed era arrivato a far spostare il carro armato sull’altro lato della strada. Purtroppo c’erano anche le zelanti spie ucraine che riferivano di queste trattative come qualcosa di sconveniente.
Per padre A. la cosa non era stata piacevole, ma la testimonianza dei suoi parrocchiani lo aveva difeso da chi avrebbe dovuto imparare da lui come si tratta col nemico.
Dicevo che si sono trovati tutti in Italia per la Pasqua. Per la verità non proprio tutti. Qualcuno non è riuscito ad arrivare. Uno è caduto a Bakhmut dove la guerra sta mostrando il suo volto più feroce. Ci sono qui sua moglie e i suoi due figli: Elisa di 13 anni e il piccolo Vanja di 7.
Il dolore della donna è grande ed è da condividere con le altre. Il marito stava per essere ordinato prete ortodosso. Era un grande amico di padre A. Ma è scoppiata la guerra e lui si è trovato ufficiale di uno squadrone di carri mandati al macello a Bakhmut, perché lì nessuno deve cedere.
L’unico sereno in questa situazione sembra proprio il piccolo Vanja. Era molto, molto attaccato al papà, ma ora dice: “Mio papà è un eroe ed è morto per difendere l’Ucraina e noi. Era molto buono ed è stato lui a insegnarmi le preghiere. Sono sicuro che papà adesso è in cielo, sta bene, e di là può continuare a proteggerci”. Perché anche tra i nostri bimbi non ci sono tanti che hanno la fede del piccolo Vanja? Forse perché non ce li meritiamo?
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