Mario era la prima volta che veniva mandato all’estero come inviato speciale. Per di più era toccato proprio a lui andare in Ucraina. Per la verità all’inizio era toccato ad un altro, un giornalista più esperto, ma questi aveva fatto presente che le sue condizioni di salute dopo il Covid non erano ottimali, che era già impegnato in altre inchieste e che comunque non sapeva una parola né di russo, né di ucraino.
Neppure Mario sapeva una parola né di russo né di ucraino, ma per il resto era evidente a tutta la redazione che godeva di una salute invidiabile e, quanto ad altri impegni, gli furono tutti annullati dal direttore del suo piccolo giornale di provincia. Sì, perché Mario non lavorava per una grande tv o un grande giornale, e così quando gli fu proposta la “missione” non gli sembrò vero di diventare un inviato speciale. Già si vedeva, poi, intervistato, non dico dalla Bbc o dalla Rai ma almeno da Tele Bergamo. Sua zia Leonilde avrebbe chiesto dopo la Messa alle sue amiche: “Ave viste ’l me neud ier sera?”
A Kiev era arrivato in treno dalla Polonia, naturalmente in seconda classe. A Kiev tutti gli inviati speciali importanti avevano già una camera prenotata per loro, e spesso un’altra per i loro assistenti in qualche albergo del centro. Mario, ovviamente, non ce l’aveva, ma alla stazione ad attenderlo c’era stata Galja, una nipote di Vera, la badante della zia Leonilde. Galja oltretutto parlava abbastanza bene l’italiano perché fin da piccola durante le vacanze era stata più volte a casa di zia Leonilde in Italia. Così Mario si trovò presto a sua agio, si fa per dire, a casa della famiglia di Galja che condivideva un bilocale con un’altra famiglia di sfollati da Kherson. A Mario toccò, come ospite d’onore, e che probabilmente poteva anche pagare qualcosa, il posto migliore, un lettino situato vicino al bagno. Tanto che Mario poteva dire che non aveva il bagno in camera ma la camera in bagno.
Tutti erano molto cordiali con lui, anche se il cibo non era proprio gourmet. Zhenja, un cugino di Galja, il giorno dopo avrebbe accompagnato Mario e la sua interprete personale al fronte, almeno fino a dove sarebbe stato possibile arrivare. Di notte giunsero un paio di missili russi nella periferia di Kiev. I giornalisti importanti li sentirono appena, da lontano. Mario, che appunto si trovava nella periferia di Kiev, li sentì proprio vicini e riuscì a provare quell’emozione che senza vergogna si può chiamare paura.
La macchina di Zhenja non era il massimo. Era una vecchia Lada che non poteva neanche contare sul bagagliaio, perché il saggio cugino l’aveva riempito di taniche di benzina. Certamente durante il viaggio non sarebbe stato facile trovare distributori aperti. Per un attimo Mario si ricordò di un racconto di suo zio Gino, lo juventino della famiglia, che una volta aveva parlato della tragica fine di Scirea. Ma non era il caso di partire con questi cattivi pensieri, e poi Mario era interista.
Il viaggio all’inizio fu su una bella autostrada senza caselli, assai poco trafficata. Si andava naturalmente verso est. Questo Mario lo capì perché da lì venivano i raggi del sole e diversi mezzi di sfollati. Solo verso sera (l’Ucraina è grande) arrivarono in un villaggio dal nome impronunciabile. Durante il giorno, a parte due brevi soste, non era stato dato di fermarsi. E per il pranzo ci aveva pensato Galja con alcuni improbabili panini. Non che alla sera si poté parlare di una vera cena perché quella parente di Galja da cui erano andati aveva preparato solo altri, e ancora meno probabili, panini. Ma si sa, un bravo inviato speciale di guerra non può fare il difficile e si sa, come dicono più o meno i francesi, “à la guerre comme à la guerre”.
Già ma dove era la guerre? Lungo la strada si erano visti alcuni segni della guerra. Gli sfollati, diversi autocarri militari; in un villaggio attraversato avevano anche visto una casa diroccata ma forse neanche per colpa della guerra. Era come se la guerra scappasse a est davanti a Mario ed ai suoi accompagnatori.
Ma alla fine, era inevitabile, la guerra fu raggiunta, acchiappata. Per la verità fu la guerra a venire incontro a loro, con la sua tragica musica ultramoderna fatta di scoppi e di fragori che sembravano un invito a tornare a casa. Poi ci furono i soldati, non proprio quelli della prima linea, perché fino a lì non si poteva andare. Non solo era sconsigliabile, era proprio proibito. La presenza dei reporter non solo era fastidiosa per chi “stava lavorando”, era anche pericolosa, perché avrebbe potuto segnalare al nemico la loro esatta posizione. Ma Mario li incontrò, i soldati della prima linea, soprattutto i morti e i feriti che si lamentavano impietosamente in una lingua per Mario incomprensibile e anche con parole che quella brava ragazza di Galja, per pudore, non volle tradurre.
Il racconto del viaggio dell’inviato speciale Mario potrebbe fermarsi qui. La guerra per chi non è stato, come me, su un aereo di feriti kazaki in volo dal Tagikistan, non è facile da raccontare e non fu facile neanche per Mario.
Tornato in Italia, incontrando zia Leonilde e le sue amiche che uscivano dalla Messa e che volevano celebrarlo come un eroe, disse: “Lasciate perdere i festeggiamenti, ma da domani incominciate a prendere sul serio l’invito a pregare per la pace. Magari, se posso, sarò anch’io lì con voi”.
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