Questa è la storia di Ljudmilla e di un pezzo di marmo. Ljudmilla, o meglio Ljuda, come la chiamano tutti qui, era la cassiera nel Teatro dell’Opera di una città dell’Ucraina che ha un nome impossibile da pronunciare.

Ljuda aveva sognato fin da piccola di lavorare in teatro. Purtroppo ballerina non era potuta diventare, perché un brutta scoliosi, forse ereditata dai nonni dal tempo dell’Holodomor, le aveva impedito di avere un corpicino adatto allo scopo. La sua voce era bella, anzi bellissima secondo sua mamma Kostja, ma quando si fece una selezione per l’ammissione alla Scuola musicale ce ne furono altre più belle o, si dice, fornite di più autorevoli raccomandazioni.



Così Ljuda alla fine era riuscita ad entrare in teatro come cassiera. In questo modo non doveva nemmeno pagare il biglietto perché i biglietti li vendeva lei. Si godeva tutti gli spettacoli, anche se non dall’inizio, perché c’erano sempre quei maleducati che arrivavano in ritardo.

Ljuda, per fortuna, o grazie alla Provvidenza, non era in teatro quella sera in cui fu bombardato, proprio durante uno spettacolo. Lei era a casa a causa di quei dolori alla schiena che una volta tanto erano stati provvidenziali. A teatro c’erano però tante persone: suoi colleghi, artisti e molti suoi clienti. Molti di loro ora non ci sono più e non c’è più neanche il teatro, ridotto in briciole da due missili. Quando però fu in grado di alzarsi dal letto, Ljuda, facendo uno sforzo grande per vincere la sofferenza, decise di andare a vedere quello che era stato il suo teatro.



E lì, in lacrime, dopo aver detto una preghiera per tutti i morti senza distinzione di ruoli, aveva raccolto come ricordo tra le macerie un piccolo pezzo di marmo. Non sapeva che il sindaco della città non aveva badato a spese per la costruzione del teatro e per questo aveva fatto venire dall’Italia del preziosissimo marmo di Carrara. Ljuda teneva fra le mani quel pezzetto di marmo come se fosse una reliquia. L’avrebbe messo nella sua stanza accanto all’urna con le ceneri del suo Dimitri. In fondo sia l’uno che l’altro, secondo Ljuda, erano in attesa della loro resurrezione. Per la verità nel caso dei teatri più che di resurrezione si dovrebbe parlare di “ricostruzione”; ma Ljuda, cresciuta nel periodo sovietico, non era mai stata a catechismo e la parola resurrezione l’aveva imparata a scuola con Tolstoj. Così a Ljuda sembrava più adatta al suo teatro la parola resurrezione che ricostruzione. Resurrezione, ricostruzione erano parole che gli abitanti della città, quei pochi rimasti, pronunciavano sottovoce come se il nemico li sentisse.



Tra le anziane che ancora frequentavano quello che era stato il bazar era nata una vivace discussione. Con i toni accesi con cui le donne si esprimono quando litigano e sono convinte di avere ragione, si discuteva su cosa innanzitutto si dovesse ricostruire. Naturalmente la maggior parte voleva che per prima cosa si ricostruissero le case, per vivere. Altre però dicevano che senza le fabbriche, senza il lavoro non si poteva vivere. Solo Ljuda, lei con discrezione, aveva sostenuto che innanzitutto era necessario un nuovo teatro. Non sto a dirvi la reazione delle altre, di tutte tranne una, la vecchissima Sonia, che da giovane aveva passato molti anni in un “gulag”. Ricordava che in quel luogo orribile nella steppa gli unici momenti di gioia erano stati gli spettacolini che la direzione richiedeva alle detenute in occasione delle feste del Partito. “Chi se ne frega del Partito. Oggi non si lavora, oggi si canta e si balla per noi, per un pubblico fatto di noi e di guardie, quei poveri ragazzi che neanche loro sono felici di stare  qui”.

Ljuda era tornata a casa con il suo pezzetto di marmo italiano, e rivolgendosi a lui, come a volte faceva con le ceneri di Igor, gli disse “Stai tranquillo tu, per adesso ti custodisco io. Verrà il giorno in cui ritornerai al tuo posto, te lo troveremo in un nuovo teatro”.

Ljuda non era mai stata a catechismo e quindi non poteva sapere che Qualcuno aveva già affermato che la pietra scartata dai costruttori era diventata testata d’angolo.

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