N. torna a casa già venerdì, in Ucraina, perché il ministero corrispondente a quello nostro dell’università ha deciso che quest’anno gli esami si devono fare in presenza.
La nostra professoressa però insegna on-line agli studenti stranieri e potete immaginare quanti studenti stranieri, e forse non solo stranieri, saranno disposti ad andare fino a Kharkiv, a pochi chilometri dal confine con la Federazione Russa, per fare gli esami.
Così, in un secondo momento, è stato concesso che gli studenti, anche per quest’anno, potranno fare gli esami on-line, ma i professori devono comunque essere presenti in sede, perché… perché l’università dimostri di essere ancora viva. Anche se una parte dei suoi edifici, pare, non esiste più, come diversi suoi docenti e studenti.
Accompagniamo N. e la sua figlioletta con le nostre preghiere, e anche i miscredenti si uniscono a noi con particolari scongiuri, ma oltre a questo ci è data la possibilità di scoprire ancora una volta alcuni aspetti di questa “strana” guerra.
In questo momento le università delle zone di guerra rischiano di chiudere. Tra i professori e gli studenti ci sono già non pochi morti. Molti dei professori di sesso femminile o di una certa età hanno potuto lasciare il paese per fuggire all’estero. Alcuni di loro, tra i più qualificati, cominciano ad essere lusingati dalle proposte di alcune università occidentali a cui non pare vero di averli nel corpo docente. C’è naturalmente qualcuno che guarda più ad Est.
D’altra parte le stesse università ucraine che si trovano in zone meno colpite dalla guerra, oggi potrebbero ospitare gli studenti rimasti, facendo risparmiare al governo, che ovviamente ha bisogno di tanti soldi – tante spese “inutili” – per pagare insegnanti di istituti semi-distrutti e attualmente semi-deserti.
Finora ci siamo preoccupati, giustamente, di favorire l’inserimento di tanti ragazzi ucraini nelle nostre scuole, ma forse è venuto il momento di “mettere la testa” alla questione di come aiutare quel Paese, tutt’altro che sottosviluppato, a continuare il suo lavoro di ricerca e di formazione delle nuove generazioni.
Se è giusto pensare alla ricostruzione delle case e delle fabbriche, perché non pensare anche ad un aiuto concreto nel campo della cultura e dell’educazione?
Perché non cominciare a prevedere che un gruppo di validi “insegnanti senza frontiere”, senza la pretesa di imporre all’Ucraina tutti gli aspetti, a volte discutibili, del mondo occidentale, possano affiancarsi ai professori ucraini rimasti per una ricostruzione non solo materiale del Paese? Non mercenari disposti a combattere il nemico, ma volontari che siano disposti ad aiutare gli amici e, magari, anche ex nemici che non sarebbero più tali.
Lo so, devo smettere di sognare, però qualcun altro, forse, deve incominciare a svegliarsi. E vedere, oltre alle questioni tattiche-militari, quali altre, anche interne alla società ucraina, cominciano ad emergere con chiarezza.
Almeno per chi vuole vedere.
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