La chiamano “la strage di Palermo” e tiene banco sui media da diversi giorni, ma c’è qualcosa di più inquietante nell’efferata carneficina che Giovanni Barreca ha consumato nella propria abitazione di Altavilla Milicia, aiutato dalla figlia diciassettenne e dai coniugi Carandente, appartenenti ad una sedicente setta denominata “I Fratelli di Dio”. Lo scopo del disegno criminale era infatti quello di liberare la moglie di Giovanni e i due figli maschi della famiglia dall’azione del demonio, ma il risultato si è concretizzato nella tortura e nell’omicidio della donna, del bimbo di 5 anni e di Kevin, adolescente di 16 anni.
La tragedia, frutto della follia lucida di un fanatismo religioso esasperato, presenta però alcuni tratti che non sono da sottovalutare o da considerare come lontani dall’esperienza di ciascuno.
Il primo tratto è quello di una religiosità profondamente segnata dalla presenza del male. Esiste un brano del Vangelo in cui Gesù parla del grano e della zizzania, un’erba particolarmente nociva che cresce accanto al grano e che i discepoli vorrebbero subito sradicare. L’invito del Maestro è però spiazzante: non occupatevi di togliere la zizzania, ma che il grano cresca. C’è un atteggiamento, un’ultima posizione nei confronti della realtà, per cui il compito dell’uomo consisterebbe nell’eliminazione del male, nel combattere il male. Al contrario, il compito della vita è far crescere il bene, stare dietro al bene, cercare il bene e custodirlo. La religiosità dei Fratelli di Dio e di Barreca era una pura perversione dell’atteggiamento originale dell’uomo che, dinnanzi al reale, è stupito e colpito dall’inesorabile presenza delle cose e non dalla presenza del male.
Qui, forse, si innesta il secondo tratto inquietante di questa vicenda: l’incapacità di un padre di famiglia di riconoscere che l’origine dei problemi di una casa è sempre nella libertà di chi la abita e non nell’azione di una creatura demoniaca. Attribuire a qualcosa di esterno la responsabilità per quello che non va in un matrimonio o in un’amicizia, in un lavoro o in una comunità, è rinunciare al cambiamento, rinunciare all’unico vero atto religioso che è quello della conversione personale: non è il demonio che se ne deve andare, sono io che devo cambiare, non è Satana che deve essere sconfitto, ma sono io che devo fare una strada di libertà e di vittoria. Spostare l’attenzione a ciò che non c’è, a ciò che è lontano, a ciò che non ci riguarda significa non comprendere il contributo che ciascuno di noi dà al problema di tutti.
Infine, c’è un terzo tratto che non può essere taciuto: questa è una vicenda che riguarda anche due adolescenti, Kevin – il sedicenne che diceva agli amici di essere indifferente per quanto il padre stava facendo alla madre con l’aiuto dei due complici – e la sorella di Kevin, la ragazza che ha collaborato attivamente alle sevizie e che ha manifestato non solo brutalità, ma anche un certo gusto per la violenza. Sono elementi fondamentali, non riconducibili solo alla dimensione del patologico, ma affini alla riduzione dell’altro a qualcosa di distante, qualcosa che non mi riguarda e che non colma la mia solitudine. È la rabbia per una vita vuota e senza senso che prende possesso del cuore della ragazza, è la forza inquietante della noia e della cosificazione degli altri che determina l’atteggiamento di Kevin. Entrambi non sanno per che cosa vivere, sono imprigionati nella narrazione fanatica dei “Fratelli di Dio” e non hanno un adulto vero che possa spezzare l’incantesimo che li condannerà a diventare vittime e carnefici.
Non c’è solo follia nella strage di Palermo, c’è una concezione dell’uomo e di Dio che ci riguarda tutti, uno sguardo malato sulla libertà, sulla responsabilità e sul Mistero della vita. I giornali e i siti si concentreranno sugli aspetti più grotteschi e macabri, la morbosità del pubblico vorrà sapere e scandagliare tutto pensandosi immuni da quella ferocia e da quella pazzia. La verità è che tutti noi possiamo fare un’esperienza della vita che privilegia sempre il male, che non guarda mai in faccia alle proprie responsabilità nei problemi e nelle situazioni, che riduce tutto a insignificante oggetto, punto di sfogo delle nostre violenze.
Noi non sappiamo quanto buio può scendere sulla nostra anima. E guardiamo il buio degli altri, certi che non ci riguardi. Ignari che un po’ di quel buio è già dentro di noi e cresce ogni volta che ci allontaniamo dalla forza delle cose, dalla loro imponenza, dalla loro positività. È un’estraneità radicale al mistero della vita che ci trasforma in bestie, in fanatici pronti ad uccidere tutto. Pur di non sentire e vedere la domanda che abita la realtà.
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