Quanto ha scritto nei giorni scorsi su queste pagine Marco Zacchera ha già affrontato, in modo circostanziato, la questione innescata dalla improvvida e incomprensibile dichiarazione di Marcello De Angelis circa le responsabilità relative alla strage alla stazione di Bologna. Improvvida e incomprensibile, anche alla luce delle successive scuse, perché in questi casi o si hanno notizie di reato, oppure si dà la stura ad una serie di considerazioni, in campi avversi, che non solo non portano a nulla se non a dare aria alla gola, ma addirittura nuocciono al necessario, vitale bisogno di verità.
La verità processuale, si sa, è una particolare, parziale forma di verità. Se non può arrogarsi il ruolo di verità vera, quanto meno è una delle forme più evolute di ricerca del vero, fondata sulla prova, su metodi deduttivi, sulla logica, sul contraddittorio… Insomma, su qualità perfettamente, ma prettamente, umane. È fondamentale, è utile, deve essere rispettata, ma non ci può bastare.
Qualcuno affida il compito della ricerca della verità alla Storia. Meno ossessionata dal presente, tendenzialmente meno schiacciata dalle contrapposizioni ideologiche, può contare su due fattori importanti. Il primo è costituito dal tempo, dalla distanza temporale progressivamente in crescita rispetto al fatto e, insieme, dal venir meno, in molti casi, dei protagonisti, diretti o collaterali, dell’evento stesso. Il secondo fattore è costituito dal documento, dalla possibilità di consultare carte spesso rimaste segrete o nascoste.
A questi due fattori si aggiunga che ad affrontate il tema vi è una generazione nuova di cercatori della verità, meno assillati dalla contemporaneità degli eventi, meno legata a questo o a quel punto di vista spesso militante.
E tuttavia anche la Storia non dà certezze di verità vera. Come ogni attività umana soffre di un limite intrinseco. I grandi teorici della storiografia hanno più volte e in vari modi riflettuto su questo “orientamento”. Perché anche la Storia, come il processo, prende le mosse dalle domande dello storico. E le domande, per quanto numerose, circostanziate, intelligenti, non possono esaurire la complessità e le articolazioni della verità vera. E se Croce sottolineava che “ogni storia è storia contemporanea”, in fondo rendeva chiaro che le domande dell’oggi allo ieri sono orientate a capire più l’oggi che lo ieri. Lo ieri diventa quindi uno strumento interpretativo.
Tutto ciò, anziché generare un generale sconforto nei confronti della Verità vera, dovrebbe – così avviene nelle società consapevoli della propria storia e della propria identità – alimentare un continuo spirito di ricerca, di studio, di analisi e, contestualmente un vero e proprio pudore della parola, sulla scia del socratico “so di non sapere”.
Invece, al contrario, nelle società civicamente sciatte, nelle comunità dei parolai di professione, nelle fortezze delle partigianerie, la parola a vanvera diventa, in uno schieramento e nell’altro, parola d’ordine, elemento interpretativo di una realtà fasulla, canto di guerra rassicurante e inebriante. Il risultato è che, solitamente, in queste società che “creano la realtà” al cicaleccio periodico (di solito le celebrazioni degli anniversari), generano la sconfitta della coscienza critica e della coscienza civica, di quel senso di appartenenza ad un comune cammino, in cui i fatti nefasti (come i momenti eroici) anziché essere celebrati, devono essere posti a radice di una solida costruzione che si alimenta della linfa del passato e dei sogni del futuro.
La Verità, giudiziaria, storica e assoluta, come un fluido vitale, è dunque da rispettare e da trattare con cura, da sedimentare e da coltivare continuamente nella coscienza personale, nella trasmissione di tale coscienza così come dei metodi e dei saperi sedimentati in quella che chiamiamo “civiltà occidentale”, e non da sbandierare nelle sguaiate canee televisive, giornalistiche o nelle piazze una volta l’anno.
Le verità minime hanno un che di rassicurante. Essendo semplici, banali perfino, servono a inquadrare la coscienza dentro spazi angusti. Anche la pulce, in fondo, nella farina si sente un gran mugnaio. Ho citato Nikos Kazantzakis. Il suo Ulisse, ad un certo punto, sbotta: “Io della verità me ne infischio, perché io creo dio”. Nel suo bestemmiare continuo contro il Cielo, alla fine pone una questione cruciale: che la verità vera è riposta nelle mani di Dio. Questo vale per le nostre minuscole verità personali quanto per le verità che forgiano i popoli, col ferro e col fuoco.
Non serve essere credenti per percepire che vi è un assoluto impercettibile e inarrivabile che costituisce una continua tensione o una lunga attesa. Ma è proprio lungo questo tragitto, con le sue verità parziali, monche, storpie, cieche, che possiamo provare il gusto di continuare a cercare e insieme sperare, senza che un post, infantile quanto stupido, debba scaraventare nel panico un’intera società e senza che, dall’altra parte, si alzino le litanie di chi crede di avere la verità in tasca. A me la verità interessa, perché non costruisco dei. Mi interessa per comprendere, nell’umanamente possibile, in che mondo sono vissuto, con quale gente ho camminato, che destino comune abbiamo incrociato. Non mi interessa avere al mio fianco un vessillo di cartapesta prefabbricato da accampare per essere rassicurato. Proprio perché so che non la troverò, completa e illuminante, dietro l’angolo di casa, non smetterò mai di cercare la verità dei fatti, delle cose, della vita. È in fondo questa la fatica di capire, parzialmente, il mondo, come diceva Einstein che, proprio cercando la verità delle cose, aveva trovato Dio.
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