Strage di Erba, cosa è successo? L’interrogativo continua a mordere le cronache nonostante la condanna definitiva a carico di Rosa e Olindo Romano, i coniugi all’ergastolo per il massacro di quattro persone avvenuto la notte dell’11 dicembre 2006 nella corte di via Diaz. Una domanda che resiste al tempo e alle conclusioni a cui è giunta la giustizia anche dopo l’epilogo dell’iter per la revisione del processo, avviato e poi negato dalla Corte d’appello di Brescia nel 2024. Questo perché sono tanti, malgrado la sentenza passata in giudicato, i punti mai chiariti della storia intorno ai colpevoli (dalle loro confessioni alle intercettazioni misteriosamente sparite in momenti cruciali dell’inchiesta, fino alla macchia di sangue “fantasma” di una vittima sull’auto della coppia che effettivamente nessuno, oltre al carabiniere che disse di averla repertata – senza però allegare foto con il luminol né un verbale corretto -, ha mai visto).



Ancora oggi, una nebbia persistente avvolge la ricostruzione della mattanza, un orrore in cui persero la vita la 30enne Raffaella Castagna e il figlio di 2 anni, Youssef Marzouk, la madre 57enne Paola Galli e una vicina di casa, la 55enne Valeria Cherubini. Ci fu un solo sopravvissuto in quell’inferno di coltellate e di sprangate, di fiamme e di sangue: Mario Frigerio, marito di quest’ultima scampato alla morte grazie a una malformazione alla carotide che impedì al fendente sferrato dall’assassino di ucciderlo.



Divenne testimone chiave dell’accusa, sostenendo di aver riconosciuto in Olindo Romano il suo aggressore senza mai, però, collocare Rosa Bazzi sulla scena del crimine. Un riconoscimento che la difesa della coppia ha sempre contestato, ritenendolo frutto di una manipolazione del ricordo da parte del luogotenente Luciano Gallorini, all’epoca comandante della stazione dei Carabinieri di Erba. Per 9 volte, durante l’ascolto del teste ancora ricoverato in ospedale, gli fece il nome di Olindo Romano inducendolo, secondo in consulenti di Rosa e Olindo Romano, a una falsa memoria. Inizialmente, Mario Frigerio parlò di un soggetto “forte come un toro”, “olivastro” di carnagione e a lui sconosciuto. Per l’accusa, però, le eccezioni sollevate dalla difesa non furono altro che mere suggestioni prive di riscontri e l’impianto a carico dei Romano-Bazzi fu ritenuto granitico.



Strage di Erba, cosa è successo la notte dell’11 dicembre 2006 in via Diaz

La strage di Erba avvenne intorno alle 20 dell’11 dicembre 2006 nella corte di via Diaz, precisamente in un complesso chiamato “palazzina del ghiaccio” e abitato da diverse famiglie tra cui quella composta da Raffaella Castagna, il marito tunisino Azouz Marzouk e il loro figlio Youssef, e quella dei coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi. Da tempo, secondo la ricostruzione agli atti, erano in corso tensioni di vicinato crescenti che, stando all’accusa a carico della coppia poi condannata all’ergastolo in via definitiva, si sarebbero tradotte nel movente della mattanza. Quella sera, di ritorno da lavoro, Raffaella Castagna scese dal treno e fu accompagnata a casa da sua madre Paola Galli insieme al piccolo Youssef. Un breve tragitto sulla Lancia K di Carlo Castagna, padre della giovane, prima di salutarsi come di consueto e andare ciascuna nelle proprie abitazioni. Ma quella notte, non si sa per quale ragione, Paola Galli scese dalla macchina, lasciando la portiera aperta e le chiavi inserite nel quadro, salì fino all’appartamento di sua figlia insieme a lei e al nipotino e con loro trovò la morte.

In agguato nel buio, secondo l’accusa, i Romano-Bazzi che, dopo aver staccato la corrente elettrica, avrebbero assassinato tutti a colpi di spranga e coltello per poi accanirsi sulla coppia di vicini residente al piano superiore, Mario Frigerio e Valeria Cherubini, scesa di sotto perché insospettita dal fumo proveniente dalla casa dei Castagna-Marzouk e aggredita con ferocia per non lasciare testimoni. Solo l’uomo si salvò mentre la moglie, anche in questo caso non è chiaro il motivo, fu destinataria di una brutalità nettamente superiore a quanto riservato poco prima alle altre vittime: attinta da decine di colpi – se ne conteranno almeno 43 su tutto il corpo, coltellate e sprangate – e ferita gravemente alla gola e alla lingua.

Fu la sola ad essere trovata senza vita di sopra, mentre il marito giaceva sul pianerottolo davanti a casa di Raffaella Castagna, agonizzante ma capace di indicare ai primi soccorritori, altri due vicini di casa, che la moglie era al piano superiore. Un cenno della mano di Frigerio a comporre il numero “3” con le dita e un indice puntato verso l’alto sarebbero stati le sole indicazioni fornite dall’uomo in quei drammatici momenti. Non è chiaro se per allertare sulla presenza di altre persone sopra le loro teste, oltre alla moglie.

Quel che è certo, come confermato dagli stessi uomini che intervennero per primi sulla scena del crimine, è che tutti sentirono chiaramente Valeria Cherubini chiedere aiuto, gridando almeno due volte, mentre si trovava di sopra. A separare la donna dai soccorsi, una cortina di fumo impenetrabile. Il piccolo Youssef Marzouk, un bimbo di appena 2 anni che mai avrebbe potuto costituire un “pericolo” per i killer, fu brutalmente ucciso con una coltellata alla gola e lasciato sul divano prima che gli assassini appiccassero l’incendio nell’appartamento. Il motivo di quella ulteriore gratuita atrocità non è mai emerso. Il padre del bambino, Azouz, si è sempre detto convinto dell’estraneità dei vicini di casa Olindo Romano e Rosa Bazzi a quel massacro. Sicuro della loro innocenza pure davanti al fatto che hanno confessato, salvo poi ritrattare e sostenere, finora, di non aver commesso la strage di Erba.

Strage di Erba: “Rosa e Olindo Romano colpevoli”, ma resta una montagna di ombre

“Rosa e Olindo Romano colpevoli” della strage di Erba. Questo, in estrema sintesi, dicono le sentenze emesse nei tre gradi di giudizio a carico dei coniugi Romano-Bazzi con un ergastolo diventato definitivo all’esito dell’iter giudiziario conclusosi nel 2011 in Cassazione. Arrestati nel 2007, sono ancora in carcere e sperano di uscire accedendo all’istituto della revisione del processo. Una strada imboccata dalla difesa e non solo: il primo a depositare richiesta, con una azione che ha pochi precedenti nella storia italiana, è stato un magistrato e non uno qualunque. Nel 2023, infatti, il sostituto procuratore generale di Milano Cuno Tarfusser, già giudice della Corte penale internazionale dell’Aja, ha depositato la sua istanza di 58 pagine per chiedere la riapertura del caso. Una mossa che non è piaciuta ai vertici della magistratura e che lo ha portato, su segnalazione della sua superiore, la pg del capoluogo lombardo Francesca Nanni, a una censura del Csm all’esito di un procedimento disciplinare con l’accusa di aver scavalcato le gerarchie dell’ufficio e di aver osato spingersi molto oltre le sue competenze.

Tarfusser, ancora oggi, si dice esterrefatto davanti a queste accuse, sicuro di aver fatto la cosa giusta nel chiedere la revisione del processo sulla strage di Erba e deluso dal fatto che la giustizia chiuda gli occhi e non si prenda la briga di correggere i suoi sbagli. Subito dopo di lui, hanno presentato richiesta i difensori di Rosa Bazzi e Olindo Romano e il loro tutore, l’avvocato Diego Soddu. Tre istanze poi unificate in Corte d’appello a Brescia, alla quale spettava il vaglio, inizialmente dichiarate ammissibili e poi clamorosamente respinte dopo lo svolgimento di ben 3 udienze. In sostanza, l’iter che avrebbe potuto portare a un nuovo dibattimento si è arenato con la sentenza che ha dichiarato inammissibile la revisione, ma senza andare a scavare tra i nervi del caso e senza valutare in aula, con l’esame di consulenze e testimoni, la consistenza delle nuove prove che la difesa dice di aver trovato e prodotto per ribaltare il giudicato.

Rosa e Olindo colpevoli, hanno stabilito i giudici, ma resiste almeno un ragionevole dubbio per cui, secondo Cuno Tarfusser, era doveroso rimetter mano alle carte e sondare i nuovi elementi per correggere un potenziale errore giudiziario tra i più eclatanti della storia. Una catasta di ombre, secondo la difesa, che non è stata demolita e che anzi, dopo la conclusione bresciana del 2024, sembra essere diventata una montagna che gli avvocati della coppia proveranno a scalare con un ricorso per Cassazione.