La Corte di appello di Brescia ha confermato ieri l’ergastolo per Olindo Romano e Rosa Bazzi, ritenendoli colpevoli della strage di Erba. La revisione del processo non si farà. Eppure, Rosa e Olindo sono vittime di un dubbio, atroce. Le loro vite si sono intrecciate con una tragedia immane, con una strage furiosa e sono usciti condannati dal processo. Ma restano i dubbi, legittimi, giusti e quasi necessari. Come in ogni processo si accerta quello che risulta dalle carte, dai testi, dalle risultanze scientifiche. E non la “verità”, che è invece un paradigma assoluto che appartiene ad altri sistemi. Ogni processo lascia un dubbio, atroce. Ogni giudizio è per sua natura basato su fatti e circostanze riferiti e rimuginati. Eppure nella sua imperfezione il processo penale è la cosa meno atroce che abbiamo inventato per stabilire un colpevole. Solo che spesso la colpevolezza e la verità sono agli antipodi. E così il processo diventa solo un luogo in cui si stabilisce una pena sui fatti che sono ammessi come prova. Lascia per sua natura dubbi e lacune, ha per sua natura una struttura indiziaria. Rari sono i casi in cui qualcosa è certo senza dubbi. E tra chi vorrebbe un sistema basato sul dubbio, che dovrebbe assolvere chiunque ne benefici, e chi invece si accontenta di una ragionevole certezza, la battaglia è aspra. Come risolvere quindi la questione?



C’è un solo modo: trovare il colpevole alternativo. Quello che ha commesso davvero il fatto e presentarlo. Ovvero, provare che vi è una conclamata innocenza del condannato. Entrambi fatti davvero rari ed estremamente lontani dal solo dubbio che sia stato commesso un reato da chicchessia.

Nel nostro sistema attuale lo spazio per il dubbio è minore di quello che si crede, perché incide molto la percezione dei fatti, la loro mediaticità, il modo in cui vengono esposti. Tanti casi di condannati innocenti ci sono stati e purtroppo ci saranno. È un prezzo tremendo che il nostro sistema imperfetto richiede. Perché se si coltivasse il dubbio come metro per stabilire chi è innocente, non avremmo condanne in tanti casi, avremmo tante sentenze di assoluzione, molte di più delle condanne. Forse troppe per la nostra società, che chiede a gran voce “giustizia” per le vittime e “verità” per le persone che soffrono offese dai reati.



Così, se da un lato chiediamo la galera per chi appare colpevole, non siamo in grado di accettarne l’assoluzione se c’è qualche dubbio. Solo che poi se quei dubbi montano e fanno riflettere, si apre il processo mediatico ed inizia la lotta contro la condanna data “nonostante i dubbi”. Per vincere perciò non basta provare il dubbio, serve purtroppo dimostrare un altro colpevole e trovare le prove. Una lotta difficile ed impari che deve portare innanzi alla Corte non tanti dubbi, ma la certezza dell’innocenza di chi chiede la revisione di un processo.

E così questo meccanismo mostra quanto ancora la cultura della nostra società sia immatura e ondivaga. Tra la richiesta di pene esemplari e la rabbia per una condanna nonostante si abbia qualche dubbio. Tra le due ipotesi ognuno ha la sua preferita. Per chi sa il dolore dell’innocenza in carcere essa diviene molto più intollerabile del colpevole assolto. Solo che ogni moneta ha il suo rovescio ed il corollario vuol dire accogliere l’impunità dei furbi, dei fortunati e dei ben assistiti che insinuano il dubbio in chi deve giudicare. E dovrebbero essere assolti.



Sono due dolori tra cui scegliere ed a cui ciascuno deve accettare di voler sottostare. Perché la verità, quella che tutti cerchiamo, non la restituisce un processo penale. Quello al massimo produce dei colpevoli che pagano la pena, a volte nonostante i tanti dubbi.

Ed allora non resta che affidarsi al processo giusto ed equo e saperne le regole, consapevoli che solo con un sistema equo ed una società equilibrata, che non cerca la forca il giorno prima e si indigna il giorno dopo, si può avere l’ambizione di un sistema più equilibrato e giusto che dia risposte che tolgono i dubbi. Ma ne siamo ancora lontani. Purtroppo.

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