“Troppe persone parlano senza aver letto gli atti, senza aver studiato“. È lapidario il sostituto pg di Milano Cuno Tarfusser nel commentare a Storie di Sera la querelle tra colpevolisti e innocentisti intorno alla strage di Erba e alla posizione di Rosa Bazzi e Olindo Romano nel massacro dell’11 dicembre 2006, per il quale furono condannati in via definitiva all’ergastolo nel 2011. È stato lui il primo a depositare richiesta di revisione del processo e si dice “sempre più convinto” di aver fatto la scelta giusta con una istanza confezionata all’esito di una attenta valutazione delle carte.
L’orizzonte profilato dal magistrato è quello di un errore giudiziario, sulla stessa linea della difesa dei coniugi che torneranno davanti alla Corte d’appello di Brescia il prossimo 10 luglio in vista della Camera di consiglio in cui si decideranno le sorti di questa delicatissima fase predibattimentale. Secondo Tarfusser, le tre “prove regine” che costituiscono l’impalcatura dell’accusa contro i Romano-Bazzi non sono tali da consentire di ritenere che il fine pena mai sia stato inflitto oltre ogni ragionevole dubbio. E ai microfoni della trasmissione di Eleonora Daniele, lo stesso ex giudice della Corte penale internazionale dell’Aja sottolinea che i tre pilastri che hanno incastrato i due imputati sono densi di criticità tali da far vacillare il giudicato. C’è chi lo ha bollato come un pazzo e chi come “soggetto non legittimato” a fare quello che ha fatto, ma lui è certo di aver agito entro il perimetro del suo ruolo e dell’onestà intellettuale nel “coltivare la cultura del dubbio” che è dote necessaria, ha ribadito, di chi deve indagare sui fatti per arrivare alla verità.
La macchia di sangue di Valeria Cherubini sull’auto di Olindo Romano: la tesi che demolisce la repertazione dell’epoca
Centrale per la difesa, che punta a scardinare le condanne con una serie di corpose consulenze di alcuni dei massimi esperti in varie discipline, oltre al nodo del riconoscimento tardivo di Olindo Romano da parte del supertestimone Mario Frigerio, non solo le confessioni, poi ritrattate dai coniugi, ma anche la macchia di sangue di Valeria Cherubini che l’allora brigadiere Carlo Fadda, del Nucleo operativo del Comando provinciale Carabinieri di Como, avrebbe trovato sul battitacco dell’auto della coppia 15 giorni dopo la strage di Erba e messo a verbale, nonostante l’urgenza degli accertamenti, ben 2 giorni più tardi addirittura senza firmarlo e indicando una targa sbagliata. Una repertazione che fa storcere il naso non solo al pool che assiste Rosa Bazzi e suo marito, ma anche al sostituto pg Tarfusser che sottolinea, tra gli aspetti opachi della questione, le differenze sostanziali tra quanto dichiarato dal carabiniere e quanto sostenuto in aula anni fa dal perito del tribunale, professor Carlo Previderè che analizzò la traccia. Il primo parlò di una traccia sottoposta a pulitura, quindi “lavata” forse nel tentativo di cancellarne ogni evidenza, il secondo riferì di un elemento dalle caratteristiche totalmente diverse che escludevano segni di degradazione dovuti ad agenti come acqua, intemperie, detersivi.
Una discrasia che, precisa Tarfusser, genera un dubbio legittimo: si trattava dello stesso reperto? Per la difesa le ipotesi sono due: quella macchia di sangue non è mai esistita sull’auto di Romano oppure non è la stessa che fu consegnata a Previderè per essere analizzata. “Oggi sono ancora più convinto del giorno in cui ho presentato la richiesta di revisione – ha precisato Tarfusser –, perché ovviamente sono andato avanti a studiare e ad approfondire la questione. Le prove che hanno inchiodato apparentemente Rosa Bazzi e Olindo Romano sono tre e sono intrise di criticità, a dir poco, nessuna regge al confronto con le nuove modalità tecnico-scientifiche che gettano una luce molto diversa. La cosiddetta ‘prova scientifica’, quella macchia di sangue, esiste solo se si fa un atto di fede“. Per il magistrato, a rendere ancora più traballante questa ultima questione è la mancata catena di custodia della traccia, oltre alla palese assenza di protocolli nel repertamento. L’allora brigadiere Fadda, infatti, non produsse alcuna foto al buio che certificasse la luminescenza, quindi la localizzazione e l’entità esatta della traccia, nonostante l’asserita aspersione del luminol (che secondo la difesa non avvenne perché il battitacco, come ha indicato il genetista forense Marzio Capra consulente di parte, sembrerebbe asciutto nella foto scattata alla luce). Nessuno, né all’epoca né oggi, ha mai visto quella macchia oltre chi sostiene di averla individuata. Si tratta di un fatto che, per Tarfusser, avrebbe dovuto invece inficiarne immediatamente l’utilizzo ai fini probatori perché del tutto assenti i requisiti necessari a cristallizzarla come prova in un processo. “Io – ha concluso il magistrato – continuo a sostenere e credo in modo assoluto che quello che è stato repertato sulla macchina e quello che è stato analizzato a Pavia non è la stessa cosa“.