Le vicende che animano la giustizia italiana non smettono mai di sollevare dubbi sulla funzionalità del sistema. Ieri si è aperto il giudizio di revisione sulla strage di Erba, in cui, l’11 dicembre 2006, furono trucidati a sprangate e coltellate Raffaella Castagna, il figlio Youssef, la madre e la vicina di casa Valeria Cherubini, mentre il marito, Mario Frigerio, pur sgozzato, riuscì a sopravvivere grazie a una malformazione congenita.
Non si intende qui entrare nel merito della sin troppo nota vicenda giudiziaria che ha visto condannati in via definitiva all’ergastolo Olindo Romano e Rosa Angela Bazzi, ritenendo al contrario di dover dare spazio alla notizia, per certi versi paradossale, relativa all’applicazione della sanzione, avvenuta pochi giorni fa, della “censura” al sostituto procuratore generale che quel giudizio di revisione ha promosso. Per la commissione disciplinare del CSM, infatti, quel procuratore non poteva occuparsi della revisione della sentenza sulla strage di Erba poiché nel progetto organizzativo della procura generale la responsabilità di proporre un’istanza di revisione risulta attribuita all’avvocato generale, di concerto con il procuratore generale. La totale assenza di condivisione della sua iniziativa con i suoi superiori gerarchici ha così causato un vulnus al sistema organizzativo dell’ufficio cui appartiene, tant’è che, trovatosi di fronte al fatto compiuto, la procuratrice generale non ha potuto far altro che inoltrare il ricorso all’autorità giudiziaria competete, con un suo parere negativo.
In parole povere, la colpa del sostituto procuratore generale Tarfusser sarebbe consistita, appartenendo a una struttura verticistica, nel non avere preventivamente informato il suo “capo”, agendo pertanto in autonomia e violando, si badi, non una previsione di legge, ma un regolamento interno all’ufficio. Senza entrare troppo nel tecnicismo, infatti, ciascun magistrato addetto all’ufficio della procura generale ha la titolarità astratta a depositare atti di impugnazione, fermo restando che, nell’esercizio dei poteri di coordinamento, il capo dell’ufficio può stabilire con quali criteri si può esercitare tale potere.
Ci muoviamo, certo, su un terreno scivoloso. In primo luogo, la revisione è un rimedio straordinario che travolge il giudicato e per questo può essere promosso solo in casi particolari. Nella revisione alberga l’aspetto del consolidamento della verità processuale, messa in discussione dal refolo di un dubbio, sicché il suo esercizio deve essere gestito con cura. Ma di converso, la vicenda in questione ruota anche e soprattutto attorno all’indipendenza e autonomia del singolo giudice, ovvero quei principi eretti a baluardo della difesa dell’operato dell’azione giudiziaria che la Costituzione ha voluto scolpire per sganciare i giudici da qualunque forma di interferenza politica e che gli stessi magistrati a piè sospinto invocano per respingere gli attacchi, veri o presunti tali, di cui si sentono vittime nel loro operato.
Il sostituto procuratore generale Tarfusser si è difeso affermando di essere perfettamente consapevole delle norme, dei ruoli, della gerarchia e della delicatezza del suo atto e che per questo aveva chiesto al suo “capo” un incontro urgente sicché, dopo avere atteso invano una settimana intera, ha ritenuto di esercitare – ecco il punto – le sue funzioni di magistrato, autonomo e indipendente, soggetto solo alla Costituzione, alla legge, agli atti processuali e alla sua coscienza e che pertanto ha ritenuto di depositare l’atto di ricorso.
Ciò che colpisce ancora di più è che il superiore gerarchico scavalcato dall’iniziativa autonoma del citato Tarfusser sia la stessa giudice, Francesca Nanni, che ha promosso la revisione della sentenza a carico di Beniamino Zuncheddu, il pastore sardo ingiustamente condannato all’ergastolo e assolto dopo 33 anni di carcere all’esito di un giudizio di revisione. Parliamo di magistrato di prim’ordine, che tra l’altro, promuovendo quel giudizio di revisione, ha avuto il merito di far comprendere come la giustizia possa sì sbagliare, ma al contempo sia in grado di riparare i suoi errori.
La Nanni, esattamente come il suo collega, dopo aver studiato le carte e lavorato in silenzio per mesi, rimanendo colpita dalla fermezza della proclamazione di innocenza del condannato, si è convinta della sua estraneità ai fatti per cui era stato condannato al punto da convincere la procura ordinaria ad aprire un’inchiesta, facendo mettere sotto controllo il cellulare di alcune persone, fra cui il testimone oculare, acquisendo così la prova dell’innocenza di Zuncheddu. La dottoressa Nanni, in sostanza, ha dimostrato una rara predisposizione d’animo nel voler coltivare quel dubbio, rifiutando di mostrarsi un arido ingranaggio burocratico, superando al contempo qualunque spirito sedimentato nella potenziale parzialità della prospettiva di essere “parte” accusatrice.
Perché allora per la presentazione del ricorso per la revisione della condanna per la strage di Erba si è registrato tanto ostracismo? Questione di mero principio o di rispetto gerarchico? Questa e molte altre domande si possono legittimamente sollevare. Qualcuno è davvero venuto meno ai propri doveri e se sì, chi dei due protagonisti? Non siamo in presenza di una limitazione dell’autonomia del singolo magistrato? Che valore ha una punizione così blanda e meglio ancora, che messaggio arriva ai cittadini?
Ebbene, crediamo che in questa sede non importi tanto comprendere sul piano della forma chi abbia agito bene e chi no, ma di certo bisogna sforzarsi nel cercare di dare una risposta almeno all’ultima delle domande sollevate. E allora, come ha dichiarato lo stesso Tarfusser – magistrato che fra l’altro è stato membro della Corte penale internazionale – se è vero che il “buffetto” della censura ben poco ha a che fare con il diritto e la giustizia, appare evidente che siamo di fronte a una decisione di politica giudiziaria volta a tutelare un sistema ormai in decomposizione, ancora avvitato su una fallimentare politica delle nomine, dominata, nonostante il cosiddetto “scandalo Palamara”, dalla perversa “correntocrazia”.
Si dirà che quelli formulati sono retropensieri e preconcetti e ben potrebbe essere così, ma di sicuro non si può che concordare sulle considerazioni finali formulate a margine della autodifesa di Tarfusser, in cui egli si augura che si proceda ad avviare una riforma della giustizia che però sia seria, profonda, degna di questo nome. Una riforma che finalmente sradichi i tossici centri di potere e non si limiti, come avviene da decenni, a somministrare blandi antidolorifici a un malato agonizzante, sempre che una politica seria, lungimirante, autorevole si decidesse finalmente a farla. “Per me arriverà in ritardo – ha chiosato il magistrato -, ma i cittadini, i nostri figli e nipoti hanno diritto ad un sistema giudiziario quantomeno decoroso”.
Come scritto da Sciascia, occorre provare a compiere l’estremo azzardo per scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia, la quale, se con il caso Zuccheddu aveva battuto un colpo, dando bella prova di sé, da questa vicenda, che si lascia dietro un retrogusto amarognolo, non esce affatto bene. A prescindere da come finirà il giudizio di revisione per Olindo e Rosa, che restando in fondo i veri protagonisti.
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