“Tutte le parole si esauriscono e nessuno è in grado di esprimersi a fondo”. Un versetto del Qoelet si affaccia insieme a un brivido di repulsione di fronte all’ennesima vicenda che gronda sangue e insensatezza. A Nuoro, due giorni fa, un padre di 52 anni, Roberto Gleboni, ha compiuto una strage impugnando un’arma da fuoco detenuta con regolare autorizzazione. Come ormai noto, sono stati uccisi la moglie Maria Giuseppina Massetti, 43 anni, due figli di 25 e 10 anni, e il vicino di casa, Paolo Sanna, 69. Unico superstite il terzo figlio, di 14 anni, colpito di striscio. L’autore della mattanza si è tolto la vita a casa della madre anziana, dopo averla colpita e ridotta in gravi condizioni.
Di fronte alla tragedia le parole sono stentate, logore, estenuate in questo tempo di violenze atroci e tremendamente ricorrenti, apparentemente immotivate, che scoppiano improvvise come bombe di cui non si sospetterebbe neppure l’esistenza. E di fatto aprono abissi di inquietudine, di domande che premono, che necessitano di vigore e tenacia per spaccare lo strato, a volte davvero spesso, dell’apparenza.
Sotto la routine rivestita di una patina rassicurante, ribolle in effetti il magma di contraddizioni sottaciute, di un disagio esistenziale sopportato, camuffato, di uno stordimento che inaridisce anche i legami più significativi, gli affetti irrinunciabili. Scandagliando la vicenda della famiglia di Nuoro, massacrata in poche mosse furibonde, senza alcun preavviso, emergono visibili segni di un’affettività che non sembrerebbe solo “di facciata”: non mancano immagini e dettagli dove la vita familiare traspare nella serena “normalità”, testimoniando anche momenti di intesa profonda e riconoscente. Nella tesi di laurea conseguita due anni fa Martina aveva scritto questa dedica: “A mia madre, che ci ha creduto prima che ci credessi io. A mio padre, l’amore più grande della mia vita”. Parole indicative, che lasciano immaginare legami tutt’altro che superficiali. Del resto Gleboni, operaio forestale che ha rivestivo incarichi di rilievo nel sindacato Cisl, è descritto dai colleghi come una persona leale, equilibrata, attiva e molto sensibile ai problemi dei lavoratori.
L’incredulità e lo sgomento non fanno che dilatare lo smarrimento, aprendo un interrogativo: fin dove occorre scavare quindi, per capire cosa irrompe nella trama ordinaria della vita, per rintracciare quel maledetto disagio che serpeggia nelle famiglie senza preventivi allarmi, senza che nessuno si accorga, a volte persino senza la consapevolezza degli stessi sventurati protagonisti di orribili efferatezze agite o subite?
Probabilmente, esperti e non, siamo tutti inclini a indagare su limiti e difetti, sulle disfunzioni sempre inevitabili nelle dinamiche umane, in particolare in quelle familiari, siamo quindi spinti a cercare di rimuovere le difficoltà, risolvere contrasti, far funzionare la vita in modo che tutto scorra senza incepparsi… Propensioni non certo criticabili, ma non esaustive, incapaci di raggiungere il disagio esistenziale nella sua profondità, alla radice.
Spesso oggi nelle relazioni si incrina l’affettività: quasi impercettibilmente, senza espressioni clamorose, si insinuano incomprensioni, distanze tollerate, tempi codificati in cui ognuno viaggia sul proprio binario esistenziale senza creare troppe interferenze e intralci agli altri, senza incrinare l’idea che, in fondo, se non si arriva al litigio, se nessuno osa travalicare i confini altrui spezzando un equilibrio ormai consolidato, un contesto, non solo quello familiare, possa resistere con una certa armonia senza richiedere nuovi “investimenti” di ascolto, di confronto, di discussione, di desideri, di dolore, di amore, passione. Tutte dimensioni che si intrecciano nell’esperienza umana mossa dal desiderio, dallo stupore per l’esistenza stessa a partire dal fatto di ritrovarsi al mondo senza averlo deciso, senza merito e senza la propria volontà. In un contesto sociale carico di contraddizioni e problemi come quello attuale, ingarbugliato nell’equivoco che ognuno è autore della propria vita che sarà tanto più libera e realizzata quanto più disposta ad allentare i legami e a costruirsi in autonomia, il nucleo familiare diventa il più esposto alle intemperie, il più carico di delusioni e frustrazioni, di tradimento proprio di quella promessa insita nell’idea stessa di famiglia come ambito privilegiato di reciprocità, di gratuità e di felicità.
È sempre difficile e improbabile entrare nelle vite degli altri, del tutto impossibile è oggi immaginare di poter comprendere, o tentare di trovare un bandolo nella tragedia di Nuoro, eppure anche solo percependo quel divario oggi sempre più sensibile fra le aspettative di bene prefigurate in un ambito di vita comune e la desolazione che invece finisce per abitare proprio le relazione più promettenti, risulta evidente quanto peso possano avere la solitudine, il disinteresse e l’umiliazione dell’altro, l’alienazione subita quando si è costretti ad archiviare desideri e speranze vitali.
Proprio l’affettività è il motore che induce alla conoscenza, alla scoperta di sé e dell’altro, che promuove il desiderio di inoltrarsi in ogni avventura intuendone il Mistero incommensurabile. Oggi un’affettività monca, deformata in un’ottica narcisista, degenerata in un possesso aggressivo, violento, distruttivo, persiste e continua a contaminare il pensiero più diffuso. Un fenomeno silenzioso, strisciante, che ci obbliga a contrastare l’indifferenza nella quale sopravviviamo, quasi incuranti di fronte alle tragedie che si susseguono. “La vita non è un problema da risolvere, ma un Mistero da vivere” insegnava Madre Teresa di Calcutta proprio entrando nel vivo delle contraddizioni che feriscono e annientano la persona e proponendo di uscire da sé stessi per incontrare l’Altro, e quindi gli altri.
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