Se l’omicidio di Giulia Cecchettin, anche per le caratteristiche socio-culturali del contesto, aveva già generato smarrimento nell’opinione pubblica, e in quel caso anche fiumi di inchiostro, la tragedia di Paderno Dugnano riveste aspetti ancora più sconcertanti.

In occasione dell’omicidio di Giulia l’assassino poteva essere interpretato attraverso il cliché dell’innamorato rifiutato, e di Eros e Thanatos sono piene letteratura e storia. Aveva colpito allora il livello culturale dei protagonisti, l’efferatezza del delitto, la premeditazione.



Qui è tutto diverso: il pluriomicida è ancora minorenne, frequenta sul territorio una scuola superiore di ottima reputazione, le tre vittime sono il papà, la mamma e il fratellino, il centro degli affetti domestici, non ci sarebbero ad oggi  evidenze di premeditazione.

Una tragedia difficilissima da decifrare. Famiglia benestante, apparentemente serena, coniugi conviventi, impegnati nell’educazione dei figli, sport, vacanze insieme, impegni oratoriani condivisi. Sembrano saltare tutte le categorie riconosciute, almeno in Occidente, come fondative del buon vivere civile, propedeutiche a un’educazione e una crescita equilibrate e costruttive.



Eppure si è manifestata una violenza spaventosamente cruenta a cui pare difficile dare il nome di raptus. Disagio nascosto? Stress da esame? Invidia della serenità degli affetti familiari di cui l’adolescente non riconosce più l’appartenenza?

Attendono Riccardo giorni di solitudine in un durissimo contesto carcerario, pesanti interrogatori, sedute processuali altrettanto drammatiche. Quale esistenza aspetta questo adolescente?

Smarriti e attoniti ci siamo tuttavia sorpresi nel sapere che all’indomani del delitto questo stesso adolescente abbia chiesto di confessarsi e abbia trovato sulla sua strada don Burgio, il sacerdote fondatore della comunità Kairos, che da anni si occupa di ragazzi difficili, di giovani delinquenti, da qualche tempo cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano.



Lasciamo ai teologi le implicazioni relative al sacramento.

Davanti alla decisione di Riccardo ci tornano in mente due grandi opere, il notissimo dipinto di Rembrandt, Il figliol prodigo, che all’Ermitage di San Pietroburgo fa ancora il pieno di visitatori, e il XXIV capitolo dei Promessi sposi, l’incontro drammatico, ma anche foriero di speranza fra il cardinale Federigo e l’Innominato.

In entrambi i casi la grande arte ha saputo esprimere con una chiarezza e insieme una drammaticità infinite il tema della proposta della riconciliazione cristiana.

La domanda di Riccardo stravolge molti dei nostri paradigmi: la richiesta di incontrare un sacerdote, ministro di un Dio misericordioso, che riconosca il dramma e si addolori con noi del male compiuto ma insieme sia, per il Ministero incarnato, capace di riaprire un dialogo, avrà sicuramente sconcertato tanti benpensanti.

Eppure l’incontro del giovane pluriomicida con don Burgio può rappresentare anche per noi un punto di partenza perché abbracci, relazioni, dialogo tornino ad essere la cifra dei nostri rapporti, a scuola, al lavoro, in famiglia.

Non si tratta né di buonismo né di censura del male commesso, ma di riconoscimento che solo il perdono autenticamente vissuto (e il dialogo che da esso può nascere) può consentire anche a chi si fosse macchiato di crimini inconcepibili, contestualmente al rigoroso corso della giustizia umana, di poter tentare un cammino di Redenzione.

In una società ammalata di isolamento, afasia e aggressività, in una Chiesa in cui molti confessionali restano deserti, la domanda di incontrare il cappellano, mendicata dal giovane pluriomicida chiede a tutti noi, pur smarriti per l’efferatezza del crimine, di aprirsi alla categoria della possibilità della misericordia, come occasione di guardare con sincerità e responsabilità anche a eventi così scabrosi per l’umana ragione.

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