Sono trascorsi 28 anni dalla strage di via D’Amelio, ma ancora oggi il ricordo è più vivo che mai. Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta hanno perso la vita nell’attentato avvenuto nel ’92, a prova di come il magistrato fosse temuto dalla mafia per via della sua lotta continua contro il potere sotterraneo dei clan. In seguito alla morte di Giovanni Falcone, l’attenzione sulla scorta del magistrato era ancora più alta e proprio per questo Cosa Nostra ha deciso di osare ancora di più, mettendo a segno una strage nel cuore di Palermo. La ‘colpa’ di Borsellino agli occhi dei mafiosi era duplice: da un lato aveva inventato con l’amico e collega Falcone un metodo particolare per combattere il fenomeno e che sarebbe stato in grado di reggere anche nei processi. Dall’altro comprendeva la logica che animava gli uomini di Cosa Nostra, le loro motivazioni e il codice. E così alle 16:58 di quel 19 luglio, il giudice Antimafia e la sua scorta sono stati fatti saltare in aria, grazie all’esplosivo nascosto all’interno di una vecchia Fiat 126, fatta esplodere da remoto.



Via D’Amelio non fu solo strage di mafia, c’erano dubbi molto seri sulla credibilità di Vincenzo Scarantino”, ha detto il consigliere Nino Di Matteo, riferisce Adnkronos, portando alla sbarra tre agenti, Fabrizio Mattei, Michele Ribaudo e Mario Bo. “Non ho mai partecipato ad una riunione, ad un incontro tra colleghi in cui si facesse riferimento alle indagini, di cui sapevo solo dalle cronache dei giornali, fino al novembre del ’94”, ha aggiunto, “siamo a due anni e sei mesi dalla strage di via D’Amelio, quello che io considero l’inizio di un possibile depistaggio con il furto dell’agenda rossa”. Tutto ruota attorno a quell’agendina che Borsellino aveva con sè prima di recarsi dalla madre, in via D’Amelio, e mai più ritrovata. La colpa, secondo Savero Lodato, sarebbe da ricercare nella mancanza di tutela della scena del crimine. “Ebbi la sensazione che fosse quasi un set cinematografico”, ha detto a La7, “dal punto di vista del campionario umano c’era di tutto. In quel circo maturerà la scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino”.



Strage di via D’Amelio, 2017 anno di svolta per le indagini

Si è dovuto attendere il 2017 per ottenere una svolta nelle indagini sulla strage di via D’Amelio, avvenuta nel luglio del ’92. Due anni più tardi c’è stata la seconda svolta, grazie ai fari accesi sul depistaggio nelle indagini, che ha visto sul banco degli accusati i pm Carmelo Petralia e Anna Maria Palma, ovvero coloro che all’epoca gestirono il falso pentito Vincenzo Scarantino. Le ombre però non mancano, a partire da chi ha rubato la Fiat 126 usata per la strage: Gaspare Spatuzza ha confessato nel 2008 di esserne l’artefice e di aver imbottito il veicolo di tritolo su ordine del capo famiglia di Brancaccio. Alcuni anni più tardi invece, grazie ad un’intercettazione a Totò Riina, rinchiuso nel carcere di Opera, si è intuito come il telefono della madre di Paolo Borsellino fosse sotto controllo da parte della mafia.



In questo modo Cosa Nostra si sarebbe assicurata di conoscere il luogo e l’orario preciso in cui Borsellino avrebbe raggiunto la casa della madre, per una visita. Nel 2017 però la Procura di Caltanissetta ha aperto un fascicolo con la richiesta di archiviazione del caso, una domanda rifiutata dal gip. Due anni più tardi è stato messo invece sotto accusa il dottor Antonino Cinà, il medico che Riina e colui che avrebbe preso in consegna il famoso ‘papello’ scritto dal boss, con le condizioni fatte allo Stato per porre fine alle stragi. Un modo per unire quanto appreso grazie al processo Borsellino quater e grazie alla sentenza della Corte d’Assise di Palermo per quanto riguarda la trattativa Stato/Mafia, con la condanna a 12 anni dello stesso Cinà.