MINNEAPOLIS – Mi ricordo molto bene quel 14 dicembre 2012, quelle immagini della scuola elementare di Sandy Hook, Connecticut, presidiata dalla polizia. Uomini armati in tenuta da combattimento, lampeggianti a gettare una luce sinistra su tutto, genitori in trepidante, angosciosa attesa davanti a quella scuola diventata improvvisamente ed inopinatamente il sacrario di venti bambini e sei adulti.



E l’altro giorno, dieci anni dopo, è successo tutto di nuovo ad Uvalde, un altro angolo remoto di suburban America. Quindicimila anime o poco più, in quella che era una tranquilla comunità latino-ispanica da qualche parte ad ovest di San Antonio, Texas.

Si spara come nei film e questa America che barcolla ad ogni proiettile si chiede confusamente cosa si possa fare per arginare questa epidemia del fuoco. Perché questo non è un film, è la realtà, ed è una realtà che diventa ancor più straziante, insopportabilmente straziante quando è fatta di dolore innocente. Come quello dei bambini della Robb Elementary School di Uvalde. Il dolore innocente scortica via il nostro tragico, ignavo abituarci ai continui mass shootings. E ci lascia appena un filo di fiato per dar voce al nostro “cry”, il pianto, il grido, la domanda.



Quando c’è di mezzo la sofferenza dei bambini anche i politici faticano a barare, anche se sono del Texas, santuario delle armi da fuoco. Perché, come ha detto Biden ieri, “Perdere un figlio è come avere un pezzo d’anima strappato”. Cosa fare? È possibile che Salvador Rolando Ramos, un ragazzo di 18 anni venuto su in una famiglia tormentata e bullizzato dai compagni per un difetto di pronuncia, vada senza problemi a comprarsi armi e munizioni?

“Noi come nazione”, ha continuato il presidente, “dobbiamo chiederci quando, in nome di Dio, sapremo fronteggiare la lobby delle armi. Quando, in nome di Dio, faremo ciò che tutti istintivamente sappiamo che deve essere fatto?”.  La lobby delle armi ed il pilastro del secondo emendamento… Chissà, magari questa volta qualche passo in questa direzione si farà, oppure il tempo aiuterà il nostro accomodante desiderio di smemoratezza e tutto continuerà a trascinarsi lasciando dietro una scia di sangue.



Ma anche riuscissimo a togliere le armi di mezzo, la grande domanda resta: da dove viene fuori tanto furore? Da dove vengono fuori i Salvador Rolando Ramos di Uvalde, gli Adam Lanza di Sandy Hook e tutti gli altri? Dove comincia la parabola perversa che porta a perdere totalmente il senso del valore della vita propria ed altrui?

Mi colpisce che sia Ramos che Lanza abbiano iniziato la loro carneficina sparando alle persone che erano a loro più vicine, la mamma per Lanza, la nonna per Ramos. Le figure materne. E niente padre. Il padre semplicemente nella loro vita non c’è. Padri e madri che la nostra società ha cancellato come punti di riferimento nello sviluppo della vita.

Mi viene in mente un messaggio di don Giussani: “Vorrei lasciarvi un augurio. (…) Che abbiate ad incontrare un padre, abbiate a vivere l’esperienza del padre. Perché la prima appartenenza, fisiologicamente e socialmente parlando, e anche ai propri occhi, è quella del genitore. Dio ci è dato attraverso padre e madre. Che abbiate a vivere l’esperienza del padre; padre e madre: lo auguro a tutti (…) a ognuno di voi, perché ognuno dev’essere padre degli amici che ha lì, dev’essere madre della gente che ha lì; non dandosi un’aria di superiorità, ma con una carità effettiva. Nessuno, infatti, può essere così fortunato e felice come un uomo e una donna che si sentono fatti dal Signore padri e madri. Padri e madri di tutti coloro che incontrano”.

Possiamo togliere le armi di mezzo, ma occorre che il grido disperato che si leva oggi da Uvalde diventi un altro tipo di grido, una domanda di qualcosa di più. Come disse Fr. Cameron al New York Encounter qualche anno fa ascoltando le commoventi testimonianze di genitori ed insegnanti di Sandy Hook, c’è una promessa anche nelle circostanze più drammatiche della vita.

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