È il 19 luglio del 1992 e ci troviamo – almeno figurativamente – in una tranquilla via D’Amelio nel palermitano: arriva un auto, scortata da alcuni veicoli, sulla quale si trova il giudice antimafia Paolo Borsellino, che in pochi minuti divenne protagonista di una strage tra le più famose mai compiute dalla mafia. L’obiettivo era ovviamente il giudice, che assieme al collega Giovanni Falcone solamente 7 mesi prima (il 30 gennaio) aveva sancito la condanna di 342 esponenti ed affiliati mafiosi in quello passato alla storia come maxiprocesso di Palermo; ma in quella stage in via D’Amelio morirono anche Agostino Catalano, Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli e Eddie Walter Cosina, i cinque eroi dimenticati che hanno dato la vita per proteggere uno degli obiettivi più ambiti dalle cosche palermitane.



Se torniamo a parlarvi di questo (tristemente) famosissimo evento cardine della storia della nostra Repubblica è perché questa sera – dando proprio a voce a quei cinque eroi dimenticati – andrà in onda su Rai 3 il docufilm ‘I ragazzi delle scorte‘, dedicato alla figura di Emanuela Loi, prima poliziotta a morire in servizio, nonché l’agente più giovane della scorta di Paolo Borsellino, in campo in quella via D’Amelio durante la strage e al fianco del giudice nei drammatici 57 giorni precedenti.



Cosa è successo in via D’Amelio: cronistoria della strage in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino

Alla Loi abbiamo dedicato un pezzo apposito e tra queste righe vorremmo rievocare quei difficili momenti della strage in via D’Amelio e – soprattutto – tutto quello che ne conseguì, ritenuto ancora oggi da moltissimi uno dei più grandi depistaggi della storia giuridica del nostro paese. Tornano a quel 19 luglio, quella mattina (racconta Il Post) il giudice dopo aver pranzato nella sua casa al mare di Villagrazia si era diretto – come di consueto – in via D’Amelio dove viveva sua madre senza minimamente pensare che di lì a poco sarebbe diventato vittima della strage.



Scese dalla macchina e si accese una sigaretta, mentre il mafioso Giovanni Battista Ferrante avvertiva i suoi compari che da un luogo mai chiaramente individuato azionarono un piccolo pulsante: Paolo Borsellino e gli agenti che lo accompagnavano furono investiti dalla violenta esplosione di 90 chili di plastico nascosti in una Fiat 126 parcheggiata proprio sotto casa della madre del giudice. Si salvò, per purissimo caso, solamente l’agente Antonio Vullo che riportò alcune ferite non letali, mentre i resti dell’auto che ha causato la strage in via D’Amelio raggiunsero anche il retro della palazzina a causa della violenza dell’esplosione.

Depistaggi e misteri della strage in via D’Amelio: che fine ha fatto l’agenda rossa di Paolo Borsellino

Ciò che nessuno si aspettava (dato che nell’effettivo già da tempo Paolo Borsellino sapeva di avere un obiettivo sulla testa) furono gli oltre 30 anni di vicende giudiziarie per scoprire nel dettaglio i mandati e gli autori della strage in via D’Amelio: ad oggi, purtroppo, la situazione è immutata e seppur alcune condanne siano state impartite, alcuni retroscena sono del tutto oscuri. Tante le confessioni e ancora di più le ritrattazioni, così come non si contano il numero di pentiti (o presunti tali) che hanno raccontato versioni diverse e contraddittorie della strage in via D’Amelio; e per le prime reali condanne si dovrà attendere almeno fino al 2018 con il processo ‘quater’ che portò alla condanna di Salvino Madonia e Vittorio Tutino (mandante ed esecutore materiale, tra gli altri, dell’attentato).

Inoltre, molti si interrogano ancora sul mistero dell’agenda rossa di Paolo Borsellino misteriosamente sparita dal luogo dell’attentato, passata dalle mani del sovrintendente della polizia Francesco Paolo Maggi, poi dell’autista di Arnaldo La Barbera e in buco nero per almeno 5 mesi nel corso dei quali si persero completamente le sue tracce. In quell’agenda sparita dopo la strage in via D’Amelio si suppone che fossero contenuti i nomi di alcuni magistrati collusi con la mafia che c’entravano in qualche modo con quanto accaduto 57 giorni prima a Capaci quando morì il collega Giovanni Falcone.