“Il giorno io lo guadagno con fatica / tra le due sponde che non si risolvono, / insoluta io stessa per la vita / … e nessuno m’aiuta”, così Alda Merini nella sua poesia Il gobbo scritta nel 1948. Il silenzio chiesto da vicende come quella di Paderno Dugnano può essere rotto – o interrogato – solo se abbiamo il coraggio di immedesimarci con quel “malessere” individuato come causa dal 17enne che nella notte tra sabato e domenica ha ucciso la madre, il padre e il fratellino di 12 anni.



Siamo “insoluti per la vita”. Potremmo iniziare da qui, senza disperderci alla ricerca di spiegazioni, analisi o parole scandalizzate. Se non ci decidiamo a prendere sul serio ciò che in noi non trova una soluzione, lasciandoci spesso da soli, senza che qualcuno ci possa aiutare veramente, resterà sempre una parte di noi con cui non saremo disposti a far pace. Tenteremo, da astuti giocatori, di riempire il tempo, di occupare gli spazi, calibrando le nostre mosse sempre in difesa, senza mai riuscirci fino in fondo.



C’è forse in noi qualcosa di sbagliato? Siamo fatti male? Sarebbe stato meglio non essere nati? Perché le cose non tornano? Perché noi “non torniamo” a noi stessi? Tutto questo mistero ci è amico o nemico? E poi, perché talvolta avvertiamo la sensazione di essere “un corpo estraneo” – così ha detto il giovane al magistrato – persino nei rapporti più cari? Senza movente una famiglia è stata eliminata da un figlio. Troppo pesanti questi interrogativi, insistenti, non danno tregua.

E se fossero proprio loro il movente? Le stesse domande che portano tanti a una vita indifferente, abituata a non avere ragioni, ripiegata sull’inutilità, questa volta hanno persuaso a prendersela con coloro davanti ai quali non si poteva fingere del tutto. Questa volta la sensazione di non poter essere aiutati da nessuno si è trasformata in un imperativo: nessuno deve potermi aiutare! Spesso viviamo così e, anche se non facciamo fuori nessuno, facciamo fuori noi stessi.



E adesso?

Adesso occorre lasciare lo spazio per una contromossa. Noi potremmo anche rimanere in silenzio, ora che tutto dice di una fine, di una tragedia. Tutto tranne quel malessere, quella ferita sufficiente, quel pertugio che può bastare per iniziare a guardarsi come degli amati irrisolti. Ma chi avrà il coraggio di arrivare fin lì? Chi potrà farci compagnia fin dentro quella piaga sanguinante? Chi? Solo Uno che non si è pentito di noi e che non molla quando tutti se ne vanno. “Relicti sunt duo, misera et misericordia” (Rimasero in due, la misera e la misericordia). Sant’Agostino l’aveva verificato molti anni fa: occorre che arrivi un punto in cui si rimane in due.

Non temere il duello, giovane irrequieto, corpo estraneo, figlio che ti sei fatto orfano. Presto se ne andranno gli accusatori, incominciando dai più anziani fino all’accusatore che c’è in te. Non temere l’unico duello che può salvarti da ciò che hai fatto, e che tenterà di farti credere di essere suo. Non temere, perché in questo duello noi siamo i miseri e non la misericordia. Il giogo è leggero, il peso è di un Altro, che è Sangue, Vita, Libertà non in cerca del colpevole, non interessato ad affondare la lama nel colpo inferto dal male, ma sempre in attesa, certo che ogni uomo è sempre più grande della cosa più terribile che ha fatto.

E anche noi, alle prese con i nostri malesseri, insoluti per la vita, mendichiamo l’assoluzione di Dio, in quel “corpo a corpo” dove nessuno è estraneo. Solo così, giovane inquieto, adesso potremo farti compagnia.

 

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