Il terribile massacro della famiglia di Paderno Dugnano ha sconvolto per l’ennesima volta la nostra nazione prima dell’inizio della scuola. L’anno scorso erano stati i fatti di Caivano, la morte di Giulia Cecchettin e solo qualche mese fa il terribile omicidio di Pescara, dove i giovani assassini mentre infierivano col coltello sul corpo di Christopher Thomas gli dicevano di stare zitto per morire in silenzio. Dopo il clamore mediatico tutto è stato velocemente dimenticato dalla memoria collettiva, finché l’ennesima strage ancora più insensata e violenta ci smuove nuovamente, con la paura che i protagonisti della prossima tragedia possano essere i nostri figli, i nostri alunni, i nostri amici.



Quando succedono questi fatti inizio a leggere, voglio capire, per cercare quella formula matematica che possa spiegarmi in qualche modo la razionalità di un gesto, ma da quando insegno, incontrando ogni giorno centinaia di adolescenti, ho capito che la razionalità non c’è. Ci possono essere motivazioni, vizi, dipendenze e ogni altra spiegazione psicologica, ma il terrore di questi gesti rimane, sconvolge e fa paura.



Scopriamo improvvisamente l’essenza del male come qualcosa di vicino a noi, qualcosa che c’entra con la nostra vita, con la nostra natura, la nostra inspiegabile capacità quotidiana di fare il male a qualcuno nel nostro piccolo, senza essere per forza psicopatici o strafatti da droghe. Siamo impauriti perché nessuno ormai ci parla più del nostro male: facile parlare e mettere al bando pubblico quello degli altri, di chi fa la guerra, di chi uccide per soldi o droga, di chi discrimina, di chi è violento, ma in fondo sembra che il male sia sempre a casa di qualcuno lontano, non sia parte di noi, della nostra intima natura. Ma non è così.



Nell’anno trascorso, in una seconda (15-16 anni), alcuni studenti si erano interrogati sul senso della morte prematura per incidente di un loro coetaneo. Quella lezione è stato un fiume travolgente, gli alunni hanno iniziato a raccontare la propria storia di dolore, la morte di un genitore, la separazione violenta della famiglia, le violenze verbali e l’esperienza di essere trattati come oggetti dai propri coetanei. Alla fine della lezione, quasi tutti piangevano e anche io ero commosso e scosso da tante storie di dolore, di male che avevano già inciso ferite dolorose nelle loro brevi vite.

Dopo il suono della campanella una ragazza si è avvicinata alla cattedra e mi ha detto: “Prof, grazie per la lezione di oggi (non avevo fatto praticamente nulla se non ascoltare), oggi ci siamo sentiti tutti più fragili e in balia della cattiveria del mondo, ma poterne parlare insieme per una volta mi ha fatto stare bene”.

Nella nostra società abbiamo ridotto tutto a psicologia, norme, diritti e doveri, ma nessuno (neanche più gli insegnanti di religione e la Chiesa) parla più del male, della nostra capacità di fare qualcosa contro noi stessi e gli altri, della lotta interiore e quotidiana tra il bene e il male, tra la bellezza e il dolore, in un confronto continuo tra la nostra fragilità e la nostra forza. Non abbiamo più nessuno a cui chiedere perdono per ricominciare liberi da un peso, il male, che invece si accumula fino a diventare insostenibile, tanto da divorarci da dentro, facendoci sentire inadatti al mondo e alle relazioni di ogni giorno.

Gli adulti non parlano più della loro vita e di questa lotta continua, personale e interiore tra il bene e il male. Tutto sembra concesso e permesso, va di moda l’autodeterminazione in ogni ambito, che dimenticando la nostra capacità del male, inizia ad esplorare un abisso senza fine, in cui rischiamo di sprofondare insieme ai nostri cari. Una frase del Qoelet mi ha sempre colpito pensando ai ragazzi che incontro ogni giorno: “Infatti, quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa”. La stessa notte oscura in cui il cuore inquieto del 17enne di Paderno Dugnano ha ucciso il suo fratellino e i suoi genitori per trovare un posto migliore nel mondo.

Bisognerebbe rileggere la storia dei grandi santi nella tradizione della Chiesa per riscoprire che il drago malefico che terrorizzava, sbranava e uccideva persone è ancora tra noi, vicino a noi. Quelli che mancano sono i cavalieri, che con le loro fragilità e il loro coraggio possano richiamare al bene, dando speranza a tutti, ricordando che sprofondare nell’abisso è possibile, ma in fondo c’è anche un bene per cui vale la pena vivere e lottare anche nel mezzo della paura. I miei studenti hanno bisogno di bene contro il male che sta dilagando attorno a loro, in loro.

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