Una “tragedia” per definizione è pubblica: comporta regia, scenografia, messa in scena e pubblico, che una volta ammesso in teatro diventa esso stesso parte attiva. Che a Paderno Dugnano si sia consumata una tragedia, nel senso greco del termine, è certificato, tra l’altro, dalla presenza del pubblico. Al netto di chi ha distolto lo sguardo per non pensarci, gli altri, tanti, ci pensano e ne parlano, nella recondita speranza di trovarci un senso. Quel senso di cui l’omicida vorrebbe negare l’esistenza, per sé e per gli altri. Ma il pubblico, una volta chiamato e condannato ad assistere, non sta ai diktat di nessuno, e prova a dare libera espressione alle proprie riflessioni.



Partiamo allora dal primo atto. Il primo atto è l’omicidio del figlio. Precisiamo pure che è del fratello dodicenne (dodici, come le coltellate) che si tratta, ma al fratello l’omicida è unito dalla comune condizione di figlio. Quindi mettiamo agli atti: a Paderno Dugnano si è consumato l’omicidio di un figlio (da parte del fratello maggiore, a sua volta figlio). Secondo atto: l’omicidio della madre. È un atto breve, spoglio, privo di dettagli, in scena c’è poco o nulla, solo lei nella stanza in “abbigliamento intimo da notte”, come è stato scritto, perché era arrivata prima, prima del padre. Non ci sono altre notizie.



Siamo al terzo atto. Nel terzo atto si consuma l’omicidio del padre, il quale entra in scena pensando di non dover temere nulla dal figlio maggiore. Lo spettatore, costretto ad assistere, sussulta. Inorridisce osservando l’ingenuità del padre che, anteponendo il soccorso al figlio minore alla propria difesa, consegna sé stesso all’omicida, privando anche la moglie di uno scudo. Era già morta? Non sappiamo.

Altro, allo spettatore, non è dato sapere. Gli basti quel che vede, ovvero un’efficacia omicida degna di un killer. Questo è il dato: un killer, tanto spietato quanto efficiente. Tre obiettivi su tre in pochi minuti, errori zero. Un’efficacia che suppone premeditazione. Pensate per un attimo di trovarvi all’improvviso minacciati da un malintenzionato, e di avere un coltello da cucina, come quello in scena, a portata di mano. Bene, come andrebbe a finire? Se porterete a casa la pelle sarete fortunati, ma pensare di far secco il malintenzionato, se non vi foste preparati, sarebbe megalomania. A Paderno Dugnano in scena ci va un omicida preparato, uno che ci ha pensato. Per usare le sue stesse (poche) parole, l’omicidio lo aveva prima “covato”, e solo successivamente compiuto. Stiamo ora per uscire dal teatro, le emozioni calano e la coscienza inizia a reclamare la sua parte, con la selva consueta dei perché e dei per come. Insomma, il regista che messaggio ha messo nella bottiglia? Ogni regista è criptico. Allora sta al pubblico prendere la parola, magari con in mente quel poco che il regista – ovvero l’omicida – ha detto e la stampa ha riportato.



Partiamo da qui: un omicidio è per sempre, irrevocabile, eterno. Lo è certamente per chi lo compie, per il soggetto che inchioda sé stesso a quell’atto, il quale entra a titolo definitivo nella sua memoria, come parte integrante della sua identità. Non esiste l’ex omicida. Ora, questo aspetto apre al problema del senso, quello che l’omicida-mentitore – non va dimenticato che in primis il ragazzo non ha accusato sé stesso ma il padre –, vorrebbe convincere il pubblico che non c’è. Sì, sembrerebbe asserire: forse usava una volta, ai tempi di un personaggio come padre Brown, pensare che un omicidio avesse un perché: l’omicidio come felix culpa, che trova nell’ammissione l’inizio stesso della redenzione. Ora non più.

Tuttavia, il pubblico – cioè tutti noi costretti impotenti ad assistere – non ci sta, perché l’omicidio eternizza il suo senso, anche mentre lo nega. Le parole dell’omicida sono poche, ma per ora sufficienti. Altre ne verranno. Ascolteremo. Tutte le parole usate dall’omicida rimandano a un affetto: sentirsi oppresso, voler essere libero, ambire a un’emancipazione. Ogni parola è un discorso, un discorso “adolessenziale”, come avrebbe scritto Giacomo B. Contri. “Adolessenziale” significa astratto, un discorso che indica una meta da raggiere “facendo fuori” il lavoro necessario al raggiungimento. Ovvero strada – compreso il lavoro necessario per cambiare strada – relazionale che vi conduce.

Anche il delirio apparentemente insensato rimanda a una teoria presupposta, che qui si esprime con un discorso (implicito) di libertà assoluta, scritto col sangue di altri, supposti oppressori. Con un tale manifesto il giovane Riccardo (l’omicida) prova perversamente a negare e a mantenere la propria condizione di figlio, negandola nell’omicidio del padre della madre e del fratello-figlio, e mantenendo eternizzato il legame negato con loro, nella forma del ricordo, nel rimpianto e nel rimorso (se sarà).

Don Burgio ha incontrato Riccardo nei giorni scorsi, come cappellano del carcere minorile Beccaria. Un fatto che interroga su quale sia la condizione che rende possibile un’autentica confessione presso un “curatore d’anime” cristiano. Un problema che egualmente si porrebbe a un ipotetico psicoanalista, anch’egli “un curatore d’anime”, questa volta laico, come lo ha chiamato Freud in una famosa lettera del 1928 al pastore Oscar Pfister, su cosa permetta di accogliere la domanda di cura di un omicida pentito, se e quando essa dovesse porsi. Quella di Riccardo inclusa.

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