Ampio spazio è stato dato sui media alla notizia della desecretazione di più di 1600 documenti riguardanti i lavori della Commissione Antimafia dal 1963 al 2001. Grande scalpore ha fatto soprattutto un video in cui il magistrato assassinato dalla mafia Paolo Borsellino appare davanti alla Commissione lamentando tutti i problemi che si trova davanti nel suo lavoro. La cosa più inquietante è che il magistrato denuncia una sola macchina blindata a disposizione di quattro persone, tanto da dire: “Che senso ha essere accompagnato la mattina per poi essere libero di essere ucciso la sera?”. Ne abbiamo parlato con il giornalista Angelo Mangano, autore, quando lavorava per la sede siciliana di Mediaset, di una intervista scoop con Vincenzo Scarantino che nel 1995, dopo essersi autoaccusato di aver partecipato alla strage in cui morì Borsellino, si scagionò per primo proprio con Mangano. Quella videointervista venne sequestrata allora dalla polizia e non è mai più riemersa, anche se vent’anni dopo quanto Scarantino aveva detto a Mangano è stato confermato ufficialmente.



Cosa pensa si possa trovare di particolarmente interessante in questa mole di documenti di cui abbiamo avuto una anticipazione piuttosto scabrosa?

Non penso ci sia nulla di particolarmente interessante, a parte l’anticipazione di Borsellino che abbiamo già avuto modo di sentire. Credo ci sia materiale di quando Borsellino era procuratore a Marsala e parlava di Trapani come “zona di grandi latitanti”, riferendosi a Messina Denaro che come sappiano 25 anni dopo nessuno sa dove sia.



Che effetto le hanno fatto le parole di Borsellino in cui si lamenta in modo esplicito del poco aiuto che riceve dal Csm?

Borsellino era così, era sempre critico con il Csm, giustamente. Nella registrazione disponibile lo si sente dire che “stiamo mettendo su il più grande processo antimafia della storia e abbiamo una sola auto blindata in quattro e un computer che nessuno ci ha detto come funziona”. Si sente qualcuno del Csm, non so chi sia, rispondergli che “riacquisterai la tua libertà andando al lavorare nel pomeriggio con la tua macchina”, al che lui risponde in maniera molto piccata che così sarà libero di essere ucciso.



Lei pensa che si tratta di un atteggiamento tipicamente “alla carlona”, come ci hanno abituate le nostre istituzioni, o qualcuno cercava di mettergli i bastoni fra le ruote in modo esplicito?

No, il rapporto di Borsellino ma anche di Falcone con il Csm era questo. A Palermo si lavorava così, nell’abbandono assoluto da parte dello Stato, ma non per infiltrazioni criminali. Per molti versi ancora oggi è così. Pensi che 15 giorni fa sono stato sentito dalla Procura di Messina che sta indagando sui giudici accusati di depistaggio, e avevano difficoltà a registrare la mia deposizione perché era appena arrivato dal ministero un nuovo registratore.

Lei è stato protagonista di un episodio che fece scalpore, quando intervistò nel 1995 Vincenzo Scarantino, che le disse di non aver preso parte alla strage, dopo essersi autoaccusato. Prima di mandare in onda l’intervista per Mediaset si presentò in studio la polizia che sequestrò tutto. Che cosa pensa oggi di quell’episodio?

Faccio riferimento a un bravo e giovane collega che lavora a Repubblica, Salvo Palazzolo. Ha pubblicato un libro che si intitola I pezzi mancanti, una sorta di riassunto di tutto quello che manca, sottratto nelle grandi inchieste giudiziarie soprattutto di mafia. Non ha avuto tempo di inserire quello che è successo alla registrazione che mi venne sequestrata quel giorno, la cassetta 1202 dell’archivio Mediaset sede di Palermo. Venne portata via dalla polizia quel giorno e non si capisce dove sia finita.

È colpa della nostra burocrazia tragica o a essere maliziosi dobbiamo pensare che ci siano delle “manine” che sottraggono questi reperti?

La Procura di Caltanissetta ha trovato 19 cassette con le intercettazioni a Scarantino, le bobine originali nessuno sa dove siano finite. In queste intercettazioni Scarantino parla spesso con l’utenza della questura di Palermo, cioè l’ufficio di Falcone e Borsellino. Stranamente queste intercettazioni sii interrompono dieci giorni prima della ritrattazione che Scarantino mi fece nella mia intervista. Mentre lo intervisto suona il cellulare, il numero che chiama è il 091 210 111, il centralino della questura di Palermo. A conoscenza dell’intervista siamo io e Scarantino, nessun altro. Evidentemente la mia utenza era messa sotto controllo.

E che cosa ci dice?

Il giorno dopo quell’intervista, il 27 luglio 1995, esce sul quotidiano La Stampa un articolo di uno dei loro massimi inviati, Francesco Radicata, in cui alla fine dell’articolo appare qualcosa che solo chi aveva sentito la mia intervista poteva sapere.

Che cosa?

Scarantino aveva chiamato la madre, che lo rassicurava e lo pregava di ritrattare. La madre gli dice di non preoccuparsi, di tornare a casa dove loro si prenderanno curia di lui e della sua famiglia. “Abbiamo fatto la spesa” gli dice, che in siciliano significa ci pensiamo noi, non devi preoccuparti. Queste cose appaiono alla fine dell’articolo. Solo io e Scarantino le sapevamo. Oppure un magistrato che  ci aveva intercettato e poi le aveva raccontate al giornalista. È la prova che ero intercettato e che c’era un magistrato che parlava con i giornalisti.

(Paolo Vites)