Il 29 luglio 1983, quarant’anni fa, Cosa nostra uccideva, con la prima autobomba della sua storia, Rocco Chinnici, capo dell’ufficio istruzione della procura di Palermo, l’ideatore del pool antimafia e sostanzialmente il maestro di Falcone e Borsellino. Nella Palermo abituata alle uccisioni mafiose, anche quelle eccellenti come Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa, l’attentato destò parecchio clamore, visto che Cosa nostra colpiva per la prima volta “alla libanese”, peraltro in una zona residenziale, causando così la morte non solo dei due carabinieri della scorta ma anche del portiere dello stabile in cui abitava il giudice. Per quella strage, pienamente inserita nelle “logiche” sanguinarie di Riina, sono stati condannati mandanti ed esecutori.



Dieci anni dopo, passando attraverso altre tragiche morti ma anche attraverso la storica sentenza del maxi-processo in cui, per la prima volta, è stata affermata l’esistenza della mafia come una organizzazione verticistica, la sera del 27 luglio 1993 scoppiava invece l’ultima autobomba mafiosa davanti al Padiglione d’arte contemporanea di Milano, uccidendo cinque persone.



Dopo trent’anni, di quella strage ne sappiamo ancora pochino: non conosciamo chi ha imbottito quella macchina di esplosivo e neanche chi l’ha guidata fino al luogo della strage; sono stati condannati infatti solo i mandanti, o meglio i mandanti mafiosi. Se per tutte le stragi di quel maledetto biennio ci si interroga invano sulla confluenza di altri interessi, su quell’ultima strage le anomalie sono ancora più marcate. Ben due testimoni ad esempio hanno raccontato di aver visto una donna bionda – rimasta finora ignota – allontanarsi dall’autobomba poco prima che essa esplodesse e, come noto, Cosa nostra non ha mai utilizzato una donna per compiere omicidi o attentati.



Persino Gaspare Spatuzza, il pentito della famiglia dei Graviano a cui dobbiamo il disvelamento del più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana, quello per la strage di via D’Amelio, nonostante abbia avuto un ruolo operativo in tutte quelle stragi non ha potuto affermare con assoluta certezza chi abbia condotto quell’auto nel luogo dell’esplosione. Egli ha infatti riferito che, salito a Milano, si adoperò per il furto dell’auto poi fatta esplodere, come già fatto per la strage di Borsellino e di Firenze, ma poi ridiscese a Roma per occuparsi delle altre due bombe scoppiate poco dopo la mezzanotte nella capitale (nei pressi della basilica di San Giovanni in Laterano e della chiesa di San Giorgio al Velabro): in sostanza, ciò che è accaduto nei quattro giorni che intercorrono fra il furto dell’auto da lui compiuto e il tragico scoppio che fece tremare tutta la città di Milano è ancora oggi un mistero irrisolto. Un mistero di cui troppo poco si parla.

Eppure le ore che seguirono quegli scoppi furono drammatiche, per certi versi peggiori di quelle che accompagnarono le uccisioni di Falcone e Borsellino. La notte di quel 27 luglio, infatti, l’allora presidente del Consiglio, che si trovava fuori Roma, decise subito di tornare nella capitale ma, come noto, non riuscì a mettersi in contatto con Palazzo Chigi: i centralini erano tutti irraggiungibili; il blackout, mai del tutto spiegato, durò tre ore e la circostanza spinse lo stesso Ciampi a raccontare che quella notte ebbe paura che fossimo a un passo da un colpo di Stato. Pochi ricordano che tal Ciolini, detenuto dell’estrema destra, già nel marzo del 1992 aveva inviato una lettera ai magistrati per raccontare l’esistenza di “nuova strategia della tensione in Italia”, che sarebbe stata attuata con una serie di “eventi intesi a destabilizzare l’ordine pubblico”.

Ma chi poteva veramente avere interesse in quel periodo a indebolire il Governo Ciampi? Certo, i mafiosi avevano perso i referenti storici che dal dopoguerra in poi avevano garantito loro le giuste condizioni per lo sviluppo delle attività illecite, soprattutto i grandi appalti pubblici, ma si fa fatica ad immaginare che cotanta strategia potesse essere ideata esclusivamente dai corleonesi di Riina.

Sempre Spatuzza ha rilevato che il copione della strage di via Palestro è stato lo stesso della strage di Firenze: il solito pescatore che tirava su le bombe inesplose della Seconda guerra mondiale aveva fornito il tritolo che una volta triturato e pressato in involucri, era stato trasportato a Milano a bordo di un tir con alcune pinze e un pezzo di miccia arrotolata. Egli riferisce che sarebbe stato tal Vittorio Tutino, mentre suo fratello Marcello faceva da autista, ad aver azionato la bomba davanti al Padiglione di arte contemporanea, specificando che alla sua presenza gli era stato spiegato bene come doveva procedere.

Ebbene, a prescindere dal fatto che viene naturale chiedersi se per un’azione così delicata fosse possibile che la mafia decidesse di usare qualcuno che non aveva pressoché alcuna esperienza nel campo delle detonazioni, per la giustizia italiana i fratelli Tutino sono innocenti poiché non è stato possibile trovare riscontri alle dichiarazioni di Spatuzza.

Tre sono i punti che restano più oscuri e che alimentano i “dubbi” circa la presenza di mani esterne alla mafia. Il primo attiene all’esplosivo usato: uno fra i maggiori esperti italiani, nominato consulente della procura, ha affermato che in via Palestro sono esplosi pentrite e T4, due componenti che non si usano spesso in ambito civile, visto che hanno un costo elevato: si tratta di una combinazione trovata solo nel Semtex-H, esplosivo ad alto potenziale di fabbricazione militare, prodotto nella vecchia Cecoslovacchia e usato anche nella strage di via D’Amelio e pure in quella del Rapido 904 del 23 dicembre del 1984. Ebbene, né Spatuzza né altri collaboratori di giustizia hanno raccontato di aver imbottito la Fiat Uno di via Palestro col Semtex, ma solo con il tritolo ricavato dalle bombe inesplose della seconda guerra mondiale.

Secondo aspetto: come detto, due testimoni hanno affermato che dalla Fiat Uno, quella rubata da Spatuzza e usata per l’esplosione, siano uscite alle ore 22 circa due persone: una ragazza bionda con i capelli lunghi, vestita di nero, in compagnia di un giovane con i capelli mossi e scuri. Chi è quella ragazza? Potrebbe essere la giovane bruna che, secondo un’informativa del Sisde, faceva parte di una struttura terroristica, composta da ex appartenenti a Gladio, così come potrebbe essere la donna di cui si parla anche per la strage di via dei Georgofili. Di certo, la descrizione fornita dai testimoni somiglia molto alla donna ritratta in una foto ritrovata durante una perquisizione del settembre 1993 in un villino di Alcamo, in provincia di Trapani, ovvero il regno di Matteo Messina Denaro, in un’abitazione gestita da due carabinieri e che nascondeva un gigantesco deposito di armi clandestino. Forse mere suggestioni, ma la circostanza pare inquietante così come quella legata al terzo aspetto.

Nel 1992 il boss di Alcamo, tal Vincenzo Milazzo, viene ucciso pochi giorni prima della strage di via D’Amelio, tradito da quell’Antonino Gioè misteriosamente suicidatosi alle soglie della sua collaborazione. L’omicidio rimane per molti anni avvolto dal mistero fino a quanto il suo ex autista, Armando Palmeri, decide di collaborare con la giustizia, raccontando che il suo capo era stato assassinato perché si era schierato contro il piano di destabilizzazione dello Stato a colpi di bombe e stragi. Egli parla di almeno tre riunioni alle quali partecipò Milazzo, organizzate nella primavera del 1992, dalle quali il boss usciva molto turbato. Dunque, Palmeri usa quasi le stesse parole di quel Ciolini, l’uomo che aveva predetto le stragi definendole come “eventi intesi a destabilizzare l’ordine pubblico, ovvero gli stessi concetti espressi da Ciampi, che parlò di “torbida alleanza di forze per perseguire obiettivi congiunti di destabilizzazione politica e di criminalità comune”.

Numerose sentenze affermano che per destabilizzare lo Stato Cosa nostra decise di colpire lontano dalla Sicilia, attaccando il patrimonio culturale italiano, uccidendo civili inermi. Una strategia troppo raffinata per essere formulata solo dai mafiosi. Il sospetto, allo stato non verificato in sede giudiziaria con individuazione dei responsabili, è che contro la concreta prospettiva di uno Stato rinnovato che faceva seguito alla caduta del muro di Berlino si sia scatenata una torbida alleanza di forze che perseguivano obiettivi congiunti.

Il conto l’hanno pagato, oltre alle vittime e ai loro familiari, solo i mafiosi, tutti arrestati e condannati, ma questo non è bastato a spingere i pochi che sapevano a raccontare chi fossero i loro torbidi alleati. Constatazione che moltiplica ancora di più l’inquietudine.

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