Gli Strange Silver Man sono un gruppo senza dubbio interessante nel panorama underground milanese: nati nel 2004 come complesso rockabilly e rhythm and blues, col nome di Susina’s Silver Club, sono cresciuti artisticamente ed ora, con “Private Sea”, il loro secondo disco, dimostrano di essere in grado di esprimere un sound stratificato e ricco di influenze diverse. Si tratta di un lavoro maturo, che merita di essere ascoltato. Dopotutto di acqua ne è passata sotto ai ponti da quando, spensierati, esordivano cantando: “Eat sushi / put some Belushi on and drink some wine…” (Susanna). Per parlare dell’album abbiamo fatto una chiacchierata con il loro simpatico bassista, Lorenzo Teatini.
Voi avete scelto di autoprodurvi attraverso un crowdfunding. Vi aspettavate che la cosa avesse il successo che poi ha avuto?
No, è stata una scommessa vinta, soprattutto contro la cultura del sospetto (e del risparmio), che in Italia la fa da padrona e siamo davvero grati e commossi per esserci riusciti. L’idea del crowdfunding è venuta al nostro fonico, Nicola Daino, detto Nola. Inizialmente eravamo scettici: chi avrebbe mai finanziato il progetto di un gruppo rhythm ‘n blues emergente!? Ma poi ci siamo fidati e abbiamo studiato come tanti artisti più famosi utilizzano questo mezzo (da Lo Stato Sociale a Ex Otago). Il mio amico Peig mi ha consigliato Kickstarter.com e via! Abbiamo impostato come traguardo 2000 euro, una cifra bassa ma comunque non facile da raggiungere in questi anni, in cui nessuno è disposto a spendere per acquistare musica, e ce l’abbiamo fatta: molti dei sostenitori sono nostri vecchi fan, ma altri hanno sentito il teaser che abbiamo preparato e si sono riconosciuti nel nostro tipo di musica.
Perché voi ormai avete un pubblico di fedelissimi…
Sì, noi esistiamo dal 2004, anche se prima ci chiamavamo Susina’s Silver Club. Abbiamo voluto far uscire il secondo disco a 15 anni esatti dalla nostra nascita. Facevamo rock tradizionale con momenti blues, ma soprattutto rockabilly ballabile. Erano i tempi dell’università e ci ponevano come alternativa alle discoteche. Facevamo anche dei bei pienoni! Da Strange Silver Man abbiamo mantenuto questa nostra orecchiabilità, anche se abbiamo virato verso un sound più maturo, con più blues e influenze folk-rock. Infatti vi sono, accanto a brani più scanzonati, anche brani d’ascolto.
Parliamo del disco “Private sea”: quali sono le principali differenze col vostro omonimo disco d’esordio del 2014?
È sicuramente più protagonista la tastiera, in forma di piano o con altri effetti. Nel disco precedente era presente solo in tre canzoni, suonata da un turnista, perché non avevamo ufficialmente un tastierista. Noi abbiamo questa caratteristica: facciamo chiudere locali e i tastieristi ci lasciano! Qui da subito abbiamo collaborato con Roberto Bennati, che ha scritto anche una canzone dell’album: “The Sidewalk”, che ricorda lo stile di Elton John o di Paul McCartney. Non vi sono inoltre pezzi in francese in “Private Sea”: nel precedente vi era “El Dorado” – diventato anche il nostro primo singolo -, scritto dal nostro cantante Paolo Caporali in Camerun, mentre era in Africa per lavoro (collabora con una ONG che si occupa di educazione e cultura); ma in questo non vi erano brani che musicalmente si sposassero con questa lingua. Il singolo invece che abbiamo scelto per lanciare questo nuovo lavoro è “Don’t you struggle alone”: una canzone carica, con un inizio forte e una chitarra elettrica distorta e molto graffiante.
Quali sono le canzoni di “Private Sea” che ami di più?
Molto bello è, oltre a “Don’t you struggle alone”, anche “Ide Mada Odo Sakli Am”, un brano dal sapore reggae scritto in Africa, sempre da Paolo, per metà in inglese e per metà in fulfulde (dialetto di molti paesi del Centrafrica). Tra l’altro è stato realizzato in collaborazione con Victor Lwaaba, un artista Camerunese e, pur avendo un testo semplice (“Col tuo amore mi hai fatto perdere la testa”), in realtà musicalmente è molto stratificata, è dedicata al Camerun e racconta la storia di un incontro importante. Il chitarrista (Andrea Garbato, alias Killer) ti risponderebbe “Safe Crash”, che è un brano rock ‘n roll.
“Dirty money blues” è però la mia canzone preferita. È di 15 anni fa, una delle primissime che abbiamo provato: originariamente si trattava di un pezzo rock anni ’90, ma poi si è evoluto ed è diventato un walking-blues.
Hai nominato tre canzoni, citando tre generi musicali diversi…
Come vedi la ricetta prevede molti ingredienti: blues, rock, reggae, folk… addirittura nella title-track vi sono momenti jazz. Questa eterogeneità in passato è stata anche oggetto di critiche. Diciamo che in cinque anni abbiamo avuto modo di sperimentare, ma restando comunque fedeli alle nostre origini rhythm and blues e senza uscire mai dai canoni classici di questi generi tradizionali. Poi comunque il lavoro del fonico Nola è un altro elemento che contribuisce a dare omogeneità al disco. Lui è con noi con noi dal 2014, anno dell’uscita del nostro primo album: l’avevamo registrato al Mu-rec studio, splendido studio vintage, specializzato in musica jazz, e lui aveva, in fase di mixaggio, dato corpo alle tracce. Questa volta ha seguito tutto lui, dalla registrazione (presso il “Boombox Studio”) alla post produzione.
Beh, io penso che chi si diverte a suonare non debba farsi problemi a proporre e ascoltare i generi musicali più disparati.
Sì, ognuno di noi ascolta tanti generi diversi, che in sala prove inconsciamente porta con sé ed esprime suonando: io ad esempio ascolto anche rap, il batterista Stefano Romano è un appassionato di jazz e classica, Filippo Rapisarda (sax tenore e harmonica) è un “soul-man”… ma spesso non tutto quello che ascoltiamo e ciò che suoniamo coincidono.
E ora veniamo alla copertina: la grafica e l’immagine scelta sono davvero particolari…
La copertina rimanda alla canzone che dà il titolo al disco: “Private Sea”. La foto è di Paolo, il nostro cantante. Al parco un giorno vide dei bambini che giocavano, in una piscina, dentro a palloni galleggianti trasparenti, come dei criceti. Ci piaceva e allora abbiamo chiesto alla grafica Stefania Antonioli (molto legata alla band e soprattutto a me, dato che mi ha sposato), di lavorarci utilizzando uno stile minimal e così è nata la copertina del disco: un font tutto nuovo per Strange Silver Man.
Nel precedente album, la copertina ritraeva un pulmino in acqua che non si capiva se stesse affondando o emergendo. Questo rifletteva l’eterogeneità del disco: era chiaro o oscuro?
Anche in questo resta il tema dell’acqua e quest’ultima ambiguità: i bambini si stanno divertendo, ma sono chiusi dentro a dei palloni, non toccano l’acqua e non si incontrano mai. In più, di spalle, si intravede la figura inquietante del custode della giostra. “Private Sea”, il mare privato, rimanda infatti anche all’individualismo e all’egoismo: scritta da Paolo, questa canzone racconta della chiusura dei porti (tema che lui ha molto caro e che, per via del suo lavoro, conosce bene). Quindi è sì un album allegro, ma contiene comunque spunti di riflessione interessanti. “House of gods”, ad esempio, è un pezzo dal sound abbastanza cupo (anche se trascinante). E comunque una punta di amaro ci sta in un album rock-blues.
Sulle t-shirt, però, non è riportata l’esatta immagine di copertina.
Una copertina così è molto colorata ed è difficile riprodurla in maglietta e allora ci siamo rivolti a un illustratore, Simone Fumagalli, che è riuscito a sintetizzare efficacemente in un disegno la foto di Paolo. Vedo che stanno piacendo: al crowfunding le hanno acquistate in tanti.
Per concludere: avete in programma qualche concerto a breve?
Ora dobbiamo promuovere il disco, ma a Milano purtroppo tanti locali stanno chiudendo (non vorrei che portiamo sfiga noi!). Spesso ci esibiamo al Julep, o un locale a cui siamo affezionati è il Jet Cafè – in ristrutturazione – o Il Vinile, che però ha chiuso. Di date già fissate al momento non ne abbiamo perché vorremmo riprendere un attimo fiato. Comunque sulla nostra pagina Facebook pubblicheremo senz’altro ogni novità in merito.
(Stefano De Palma)