Boris Johnson ha presentato alla Camera dei Comuni il piano per uscire gradualmente dal lockdown. Prevede quattro fasi, quattro scaglioni progressivi e la continua verifica di quattro termometri principali: il progresso della campagna vaccinale, il numero di casi e decessi, il monitoraggio dell’indice Rt e dell’evoluzione delle varianti Covid. Con la consapevolezza che un Regno Unito a contagi zero è ancora impensabile, così come resta impensabile un mondo a contagi zero. E che il vaccino non potrà mai essere efficace al cento per cento. Guidato dall’esigenza di preservare la salute mentale dei cittadini e di restaurare gradualmente i rapporti sociali, il piano punta anzitutto sulla riapertura delle scuole, l’8 marzo, accompagnato dalla possibilità (anche se inizialmente limitata) di ripristinare i primi rapporti sociali (all’aperto).
Si procederà poi con le altre date: il 12 aprile (con la riapertura di tutti i negozi, anche quelli non essenziali), il 17 maggio (con un ulteriore allentamento dei limiti numerici per i rapporti sociali e la riapertura di teatri, cinema e hotel oltre che, forse, la possibilità di tornare a viaggiare), e il 21 giugno, che dovrebbe segnare la fine del social distancing e il ritorno a una circostanziata normalità, anche per pub, discoteche, concerti ed eventi pubblici. Resta, naturalmente, l’indicazione di indossare la mascherina. Ma se il Regno Unito programma l’uscita dal lockdown è anche grazie al vantaggio competitivo acquisito nell’accaparrarsi dei vaccini. E l’Italia ha già avuto il suo lockdown rigido, molto prima. Ce lo spiega Antonio Clavenna, ricercatore presso il Dipartimento di salute pubblica dell’Istituto Mario Negri.
Come commenta il piano di Boris Johnson, le sembra efficace?
Partirei dalla considerazione che la situazione nel Regno Unito era differente da quella italiana, soprattutto nel periodo tra dicembre e gennaio, per cui il Regno Unito ha dovuto fare delle scelte diverse dall’Italia, anche per un aumento molto importante dei casi e per la circolazione delle varianti, che hanno portato a un aumento dei casi e a una maggiore pressione sul sistema sanitario. È comprensibile che siano state fatte altre scelte.
Un piano di medio-lungo termine di questo tipo è pensabile in Italia?
Bisogna considerare che quello ancora in corso è il primo lockdown così rigido fatto nel Regno Unito. Mentre in Italia già dal marzo 2020 abbiamo avuto un lockdown con limitazioni molto stringenti, nel Regno Unito il vero lockdown è partito dal mese di dicembre, per cui le due situazioni non sono del tutto paragonabili. Sotto molti punti di vista credo che a un certo punto sia necessario uscire dal lockdown, il problema è sempre capire quando è possibile allentare le misure senza che ciò implichi di nuovo una ripresa dei contagi. Un piano che preveda riaperture graduali è ragionevole.
Si partirà con la riapertura delle scuole l’8 marzo.
So che è stata molto criticata questa scelta, molti hanno sollevato il dubbio che riaprire possa comportare dei rischi. In realtà credo che i ragazzi siano la popolazione da preservare maggiormente rispetto ai danni anche psicologici che la chiusura comporta. Occorre bilanciare l’esigenza di salute pubblica con quella di tutelare la salute fisica e psicologica dei bambini e dei ragazzi. Continuare con la chiusura delle scuole e la didattica a distanza avrebbe ripercussioni sulla loro crescita e sul loro sviluppo futuro. Questa dunque, se fatta in sicurezza, è a mio avviso una scelta condivisibile.
La priorità, oltre alla scuola, è la vita sociale: si procederà con graduali allentamenti delle restrizioni, anche per lo sport.
Sì, da un lato ci sarà la possibilità di praticare sport all’aperto, dall’altro saranno di nuovo consentite le occasioni di socialità all’aria aperta, con però, almeno inizialmente, un numero limitato a poche persone, con la possibilità di ritrovarsi in massimo sei persone o due nuclei familiari per occasioni conviviali all’aperto. Anche questo è un modo per sottolineare come sia importante la salute psicologica dei cittadini, cercando di garantire con una certa gradualità la possibilità per le persone di ritrovarsi con amici, conoscenti e parenti. Il contesto all’aperto, poi, è anche una garanzia di riduzione del rischio di contagio.
E il piano sfrutta in questo senso l’avvicinarsi della primavera.
Sì, anche se il clima nel Regno Unito è più rigido di quello italiano. Ad ogni modo la primavera fornisce sicuramente un contesto favorevole alla diminuzione della circolazione del virus, un po’ com’è avvenuto l’anno scorso, perché si tende a stare meno al chiuso.
Il vantaggio sui vaccini aiuta?
Sì, nel Regno Unito il numero di dosi somministrate è maggiore, e poi è stata fatta una scelta differente da quella italiana e vedremo se sarà una scelta felice oppure no.
Cioè?
Somministrare il più possibile la prima dose ritardando la seconda, indipendentemente dal tipo di vaccino. È un po’ un azzardo, vedremo se i dati daranno loro ragione oppure no. Anche in questo caso la strategia è condizionata dalla situazione epidemiologica. In situazioni di estrema emergenza è comprensibile dover forzare la scelta di una strategia non del tutto studiata per cercare di coprire il massimo numero possibile di persone, soprattutto le più vulnerabili. E poi c’è un’altra considerazione da fare.
Quale?
Il Regno Unito ha dalla sua anche l’aver fatto accordi con le aziende farmaceutiche per dosi più numerose di vaccino rispetto a quelle che è stato possibile ottenere come Europa, e un altro vantaggio è dato dal fatto che uno dei vaccini è stato sviluppato con l’Università di Oxford, il che ha garantito in qualche modo una corsia preferenziale.
(Emanuela Giacca)