06:13. Sei minuti e tredici secondi è la durata di Like a Rolling Stone, la canzone di Bob Dylan considerata dalla rivista statunitense Rolling Stone come la “Greatest Song” di tutti i tempi. Eppure Like a Rolling Stone non ha mai occupato la prima posizione delle classifiche di ascolto. Può aver inciso la durata a penalizzare il successo commerciale del brano? Quando si parla di arte e di bellezza il tempo non dovrebbe essere una variabile rilevante eppure pare che, se non fosse stato per l’ostinazione di Dylan e per la richiesta degli ascoltatori, un capolavoro come LARS (così abbreviata dai fan del Nobel) non sarebbe stato consegnato al pubblico radiofonico nella sua interezza. “Quando il singolo fu pubblicato, il 20 luglio del 1965, le copie fornite alle stazioni radiofoniche tagliarono a metà la canzone dividendola nei due lati del vinile rosso del 45. Alle stazioni fu data la possibilità di trasmettere anche solo i primi 3 minuti, preservando in questo modo il consueto rapporto canzone-spot delle radio”.



Scrive così Greil Marcus in “Like a Rolling Stone” in cui il famoso critico americano racconta la “biografia” della canzone. “Dylan richiese che Like a Rolling Stone fosse su un unico lato e ben presto una nuova stampa rimpiazzò la prima. Ma quando la canzone fece per la prima volta la sua comparsa alla radio, tutto quello che si poteva sentire erano i 3 minuti, con la dissolvenza che suonava falsa, come se mancasse qualcosa. Quando iniziò a diffondersi la voce che in realtà c’era qualcos’altro, le stazioni furono martellate dagli ascoltatori che chiedevano tutti i sei minuti, e sei minuti fu ciò che ottennero”.



Sei minuti erano un’eternità per gli standard del tempo ma sono una durata eccezionale anche per i canoni attuali nonostante la musica digitale abbia superato il problema dello spazio limitato dei vinili e dei CD e le radio abbiano meno influenza sui gusti degli ascoltatori. Tuttavia anche oggi capolavori come Like a Rolling Stone rischierebbero una visibilità ridotta per via della loro durata.  Le canzoni lunghe, fatta eccezione per alcuni generi musicali (sei minuti sono solo un assaggio per una band progressive o per una Jam band, un antipasto di Dogs dei Pink Floyd e una intro di una qualsiasi Jam di At Fillmore East degli Allman Brothers), non sono particolarmente amate dallo show biz di oggi come di cinquant’anni fa. Non è un caso che nel corso degli ultimi anni, secondo quanto riportato da Quartz, la durata delle canzoni Pop incluse in Billboard Hot 100 negli ultimi anni sia sceso ad una media di 3 minuti e 30 secondi e soprattutto sono aumentate in maniera importante le canzoni sotto i due minuti e mezzo. La spiegazione è probabilmente da ricondurre al ruolo crescente che stanno avendo le piattaforme di streaming audio come Spotify e le relative nuove dinamiche di ascolto.



Lo streaming ha salvato o ucciso la musica? Se andiamo a vedere i numeri la musica digitale è sicuramente la soluzione che oggi tiene in piedi l’industria discografica: i ricavi mondiali complessivi ($19 bn) sono in crescita di quasi il 10% soprattutto grazie agli introiti dello streaming  (+34%). Il fisico è in costante declino anche se ci sono dei paesi che resistono come il Giappone in cui i supporti fisici, sempre in crescita, rappresentato ancora il 71% del mercato (IFPI). Nel complesso la musica digitale ha raggiunto il 60% del mercato e gli abbonati a pacchetti streaming premium sono diventati addirittura 255 milioni nel mondo con il solo Spotify che ha raggiunto 100 mln di sottoscrittori ed un totale di 217 mln di utenti attivi al mese. A completare il quadro, nuovo ossigeno per l’industria discografica potrebbe arrivare dallo streaming video che fino al 2017 costituiva circa il 55% della musica ascoltata online. Infatti YouTube pagherebbe al momento solo qualcosa come 1/18 dei diritti pagati da Spotify, la chiusura di questo Value Gap porterebbe flussi freschi nelle tasche dell’industria. Spotify, Apple Music, Amazon, Pandora, per citare solo i principali audio streaming, pagherebbero oggi in media qualcosa tra lo 0,004 e lo 0,008 di Dollaro per ogni ascolto da pagare al detentore dei diritti perché non è solo l’artista a beneficiare degli introiti in quanto l’importo andrebbe ripartito anche con l’etichetta, i produttori, il compositore e chiunque vanti delle royalty sul pezzo. Quindi per contare su incassi significativi è necessario ragionare su volumi di play significativi. Per semplificare il calcolo consideriamo una media di mezzo centesimo ad ascolto, quindi per dare un ordine di grandezza 1.000 streaming equivarrebbero a circa $5, bene o male i numeri medi che presentano band emergenti che hanno si l’opportunità di esporre la propria merce in vetrina ma in un negozio in un vicolo cieco senza passaggio. Per iniziare a guadagnare una cifra consistente e per far si che la musica possa diventare una professione bisogna ragionare su milioni di ascolti: 10.000.000 di play per esempio già sarebbero $50.000 (al lordo delle tasse ovviamente) ma per passare dal tour bus al jet privato occorrono centinaia di milioni di visualizzazioni per più canzoni, una cosa non proprio per tutti insomma. L’ultimo dettaglio da tenere in considerazione è che per fare scattare il contatore è necessario che l’ascolto si prolunghi per almeno trenta secondi… e quindi si torna al punto di partenza, è chiaro che, laddove possibile, all’artista e alla sua etichetta anziché fare una canzone lunga conviene farne due corte per guadagnare di più!

E allora si sprecano i sotterfugi e i raggiri più o meno legali per guadagnare di più con lo streaming. La funk band americana Vulfpeck nel 2014 ha reso disponibile su Spotify un album Sleepify di sole Silent track ovvero 10 tracce, da “Z” a “ZZZZZZZZZZ”, tutte di poco più di 30 secondi, e ha incoraggiato i propri fan ad “ascoltare” i brani a ripetizione durante il sonno notturno al fine di raccogliere fondi per sostenere un loro tour gratis. Secondo i dati di Billboard la band avrebbe raccolto con questo escamotage quasi $20.000 prima che l’album venisse rimosso! In Bulgaria invece un “artista” avrebbe guadagnato qualcosa come 1 milione di $ creando nel 2017 due playlist “Soulful Music” e “Music from the heart”, composte da 467 pezzi della durata media di 43 secondi, grazie a degli ascolti in loop provenienti da 1.200 account diversi (pare acquistati regolarmente)! O ancora nel mondo ci sono piccole case discografiche e agenzie che guadagnano presentando volumi di play più consistenti facendo pooling e aggregando band emergenti ma con un risultato a somma zero per i singoli artisti.

Quindi oggi avremmo ancora un LARS mutilato? Non in Spotify in cui LARS, con 135 milioni di play della sola versione in studio inclusa in Highway 65 Revisited, è la canzone di Dylan più ascoltata. Nella piattaforma, tra i 50 milioni di brani presenti, sono disponibili anche diverse alte versioni di LARS come quelle incluse nei Bootleg Series e nei vari live che superano abbondantemente i 7 minuti (su tutte la “fucking loud” della Free Trade Hall di Manchester e quella della “The Real” Royal Albert Hall di Londra).

Ovviamente la portata rivoluzionaria della canzone, sia nella forma che nel contenuto, va ben oltre la durata e il numero di ascolti: un testo che racconta una storia e un suono nuovo che taglia i ponti con il Folk e apre le porte al Rock’n’roll. Nella canzone c’è tutto: delusione, consapevolezza, tempesta, rabbia, strappo e tradimento. Bob Dylan è sempre andato avanti dritto per dritto per la sua strada e riguardo al troncamento di Like a Rolling Stone in maniera molto pragmatica ha avuto modo di commentare: “L’hanno tagliata a metà per i DJ… se a qualcuno interessa poteva girare il disco e ascoltare quello che succedeva veramente”.  E per chi lo ha fatto, da allora, nulla è stato più come prima.