“What have you learned these weeks, at home, in seclusion”? chiedo alla mia classe di Inglese B2 aprendo il dialogo della nostra ultima video-lezione prima delle vacanze di Pasqua, indagando su cosa è rimasto loro impresso di questo lungo periodo di isolamento tra le mura domestiche.
La risposta di Martina è folgorante come un aforisma di Wilde: “Adesso che ho tempo non ho i miei amici; prima li avevo davanti a me tutti i giorni e mi mancava sempre il tempo per stare con loro”.
Un ribaltamento dello sguardo che mi colpisce e che ritrovo nella risposta, tutt’altro che scontata, di Aijay. “Ho imparato a conoscere meglio i miei genitori – afferma serio e quasi con dolcezza. “How is that”? “Beh, in queste settimane c’è stato il tempo di vivere i rapporti tra di noi in modo diverso, più sereno. Per esempio, mio papà suona la chitarra e anch’io. Mia madre il pianoforte. Ci siamo ritrovati a suonare insieme ed è stata un’occasione per allargare i miei orizzonti culturali anche in fatto di musica”.
Ciò che resta a Elena, invece, è l’evidenza lampante “che non siamo noi i signori del mondo”.
Come stridono queste osservazioni semplici dei miei ragazzi se paragonate ai commenti smaliziati dei media sui quali, dati alla mano, si annuncia che il peggio sembra essere passato. Mentre ancora si stenta a immaginare quali saranno le ricadute economiche, sociali e personali, di quanto abbiamo vissuto e stiamo ancora sperimentando, il riaffiorare di categorie interpretative vecchie e impolverate a cui ridurre la novità assoluta che stiamo attraversando è forse il segno più evidente – e triste – che il ritorno alla “normalità” non è una fake news.
La pandemia, come sostiene Elena, rivela come siamo incapaci di dominare tutti i fattori del reale, oppure che dobbiamo corazzare di statalismo la sanità pubblica? La crisi ci dimostra che solo uniti si può fare fronte ad un nemico invisibile che non conosce frontiere, oppure che possiamo fare a meno dell’Europa? La possibilità di contrarre il virus negli ospedali, a scuola, in condominio, ci ha resi più consapevoli della nostra fragilità morale davanti all’altro quando la sua sola presenza costituisce una minaccia?
Vi è un aspetto della lotta al covid-19 che non si gioca in termini socio–economici né politici e neppure a livello scientifico, ma riguarda ciascuno di noi. Possiamo uscire da questi mesi di reclusione con le facce abbrutite, oppure con l’anima “fiorita”, come la primavera.
Durante il nostro primo collegamento su Zoom, all’indomani della chiusura delle scuole, Salvo mi aveva detto che la cosa che più gli faceva paura era che “oggi sia come ieri e domani come oggi”. “Cosa ti ha sostenuto in queste settimane? – gli chiedo a quaranta giorni di distanza. Basta “fare ogni giorno il proprio dovere” stando a casa, come ci è stato detto di fare, e non senza ragione?”.
“No – mi risponde – non basta. Forse è sufficiente all’inizio. Poi, però, ci vuole un significato. Un senso, che non sia un cieco accadere di fatti. Qualcosa che non renda questo tempo inutile”.
Le domande e le osservazioni dei miei ragazzi spuntano come i fiori tra le crepe del cemento dei muri del nichilismo che scarta come non essenziale ciò a cui non sa rispondere.
All’esigenza di significato contenuta nelle parole del mio alunno, però, non risponde una spiegazione. Occorre, un significato capace di abbracciare le esistenze chiuse nelle bare che i camion dell’esercito portavano ordinatamente attraverso le strade deserte di Bergamo verso il nulla di una fossa e le vite di quelli che ce l’avranno fatta. Un fatto; come le domande imprevedibili dei miei allievi spuntate dove doveva esserci solo il vuoto dell’inedia. Un fatto; come una pietra rotolata via dal sepolcro di risposte già sapute che non reggono l’urto del reale.