Non c’è da scherzare, né da minimizzare. Le urla di aiuto delle ragazze aggredite a Milano in Piazza Duomo la notte di capodanno fanno male al cuore. La misura della nostra civiltà è data dall’allegria serena e spensierata dei ragazzi e delle ragazze nelle nostre piazze. Il loro diritto alla serenità ed all’allegria nella pubblica piazza è il cuore della nostra civiltà; ci dà la conferma del bene e del giusto che non sono per nulla relativi. E una ragazza che possa attraversare la notte senza correre il rischio di essere aggredita deve essere il primo dei diritti politici da garantire.



Piazza Duomo la notte di capodanno doveva essere il luogo della serenità e dell’allegria di una società civile, dove la festa non si confonde con la banale liberazione degli istinti. Tuttavia le ondate dell’indecenza hanno fatto sì che la soglia di guardia si abbassasse del tutto. Certamente esiste una falla nel sistema sicurezza concretamente rappresentato dalle forze di polizia alle quali evidentemente era stato impartito l’ordine – oramai ossessivo – di controllare le fantomatiche “mascherine” più che la sicurezza fisica, l’integrità delle persone, la serenità dei luoghi. Ma non è solo una questione di inefficacia pratica, unita alla ricorrente cecità sul presente che pare caratterizzarci, a spiegare come l’impensabile sia accaduto.



Aggredire delle ragazze è un archetipo orrido, che proviene dai sottofondi bui dei nostri antri peggiori, da quelle lugubri terre di nessuno che non dovrebbero mai esistere. Tuttavia, ora che l’illuminazione e le provvidenziali telecamere hanno ridotto gli spazi fisici dell’aggressione, quest’ultima si è spostata altrove: oramai la nuova copertura è data dalla festa di massa, dove tutto può essere realizzato una volta che ci sia un gruppo di complici, pronto a fare da schermo ed a coprire le grida di aiuto con le urla dell’isteria divertita.

A poco serve la pur comprensibile ondata di sdegno verso gli immigrati di seconda generazione. Gli aggressori di Piazza Duomo che hanno dato briglia sciolta alla loro animalità repressa non sono molto diversi dagli adolescenti romani che qualche mese fa hanno compiuto le loro scorribande violente vicino a Montecitorio, né da quanti, poco più di un anno fa, si erano dati appuntamento al giardino romano del Pincio per picchiarsi. Ad ogni branco la sua preda, la sua pulsione da liberare, il binge drinking e la cultura dello sballo per gli uni con tutto ciò che ne consegue, l’aggressione organizzata alle ragazze inermi per gli altri.



C’è qualcosa di profondamente e intimamente insensato in tutto questo. C’è un vero e proprio sipario della demenza che sembra accompagnare una frangia (per fortuna solo una frangia) di giovani – e di qualcuno meno giovane – che scelgono volentieri di lasciarsi andare ai propri istinti appena le condizioni lo rendono possibile, come se questi istiniti potessero vantare una sorta di diritto all’esistenza.

Non si tratta minimamente di “disagio sociale”, la scorciatoia sociologica è oramai nauseante e insopportabile. L’atto vandalico, l’aggressione, il furto e la violenza sono scelte personali ed hanno responsabilità personali, e quindi hanno nomi e cognomi che vanno rapidamente rintracciati e severamente puniti. Allo stesso modo non è più solo una questione di educazione, oramai emerge una vera e propria assenza dei principi primi. Principi che non si acquisiscono a scuola, ma si apprendono ancora prima. Si tratta dell’abbecedario primario della vita: si impara a rispettare l’altro prima ancora di apprendere a parlare, ed è la famiglia a doverlo insegnare, la collettività delle buone regole a doverlo confermare, le istituzioni a doverlo imporre. La cultura del branco è una non-cultura, è il brutale e brusco congedo da ogni cultura intesa come riflessione metodica sulla realtà e sull’esistenza volta a conoscere la prima ed a guidare il soggetto nella seconda.

Il problema è allora quello di famiglie che non educano, di collettività che non confermano e di istituzioni che non intervengono: tutte sempre più mute e sempre più incapaci di educare e di imporsi.

Ma ciò non avviene a caso. Non è possibile infatti negare il ruolo nefasto esercitato da una cultura della pulsione legittimata, dell’istinto riabilitato, dello sfogo incontrollato che continua ad abitare nei botteghini del vuoto e della miseria morale (non materiale) che continuano a sussistere; quasi in una sorta di mondo parallelo, dove ci si concedono e diventano legittime tutte le devianze possibili.

La non-cultura del branco sopravvive serenamente nella nostra società delle dimissioni generalizzate, non viene intaccata da nulla ed è pronta a riemergere quando l’occasione è vista come propizia. Non sono solo “bravi ragazzi” quelli che hanno aggredito delle ragazze a Milano, così come non sono solo “bravi ragazzi” quelli che si perdono nell’alcol e nella cultura dello sballo, o quelli che si prendono a pugni per “dare vita” alla serata. La loro bravura, quando c’è, convive pericolosamente con la bestia della demenza e del diritto alla pulsione che si portano dentro. Dietro la facciata linda, sopravvive il mostro degli istinti incontrollati che rende possibile a due ragazzi americani il proposito di venire a Roma unicamente per sballarsi di droga a più non posso, così come rende pensabile a dei ragazzi maghrebini di andare in piazza Duomo e muoversi in modo coordinato per aggredire e violare quella preda atavica e sempre ambita costituita dal corpo della donna.

Gli uni e gli altri sono un prodotto dell’equivoco contemporaneo che vede nel diritto alla liberazione dei propri istinti un’acquisizione oramai confermata, un principio della libertà individuale plasticamente rappresentato dai rave party, quando in realtà per ogni cultura vale decisamente la direzione opposta, quella secondo la quale crescere vuol dire apprendere a governarsi. La convinzione secondo la quale si possa convivere con lo stupidario dei propri istinti e confondere il divertimento con l’eccesso, che per definizione limiti non ha, apre le porte a tutti i deliri possibili, dove l’altro diventa immediatamente una preda facile da abusare non appena se ne possano coprire le urla.

È dalla cultura dello sballo che bisogna decisamente e definitivamente separarsi per ritornare a dei principi di rigore morale che hanno nel rispetto dell’altro, qualunque questo sia, la propria stella polare. Qualsiasi tolleranza è destinata a spingerci sempre di più verso il vuoto di un’assenza di principi, nel quale il soggetto è destinato a smarrirsi.

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