25 ottobre 1924. Cento anni fa Luigi Sturzo (1871-1959) abbandonava Roma e, dopo una breve sosta a Torino, lasciava l’Italia per la Gran Bretagna, dando inizio a un lungo esilio che sarebbe durato ventidue anni.
Chi era Luigi Sturzo? Una figura singolare, difficilmente inquadrabile, sacerdote e fondatore del Partito Popolare Italiano, uomo di fede e politico.
L’esilio sembrava essere, dopo l’avvento del regime fascista, la soluzione necessaria per mettere in salvo la sua stessa vita sempre più minacciata dal pericolo di un attentato, specialmente da quando Sturzo aveva sostenuto la necessità di mettere fine all’Aventino per ritornare a contrastare attivamente Mussolini nell’aula parlamentare. Inoltre, si trattava di allontanare una figura scomoda, causa di continui attriti tra lo Stato italiano e la Santa Sede.
Quella che appariva come una situazione temporanea, un allontanamento di alcuni mesi in attesa di tempi migliori, finirà con il rientro in patria solamente il 6 settembre 1946. Questi lunghi anni sono segnati non solo dalla sofferenza per la lontananza dalla propria terra, neanche esclusivamente dal dolore per una sconfitta politica e sociale, ma soprattutto da una serie di domande pungenti: come vivere l’esilio? Come evitare che questo tempo vada perduto, vittima della malinconia, del rimpianto o del risentimento? Che senso ha l’impegno nel mondo, nella politica, quando tutto sembra così deludente?
Nelle lettere e negli interventi di Sturzo sembra che gli eventi, anche grandi e imponenti, passino in secondo piano, come lo sfondo sul quale si staglia la vera storia, quella dell’anima dell’esiliato.
In uno scritto ai suoi amici nel gennaio 1926, prende le mosse anzitutto da un esame di coscienza in cui individua le cause della sconfitta nella scarsa coesione del partito e nella poca fiducia in se stesso. “Riconosciamo che sul terreno politico abbiamo perduto: non è questo un segno che abbiamo fatto male; è solo il segno che non avevamo forza o arte pari a guadagnarci la vittoria. Ma è vile chi è convinto della bontà delle proprie idee e abbandona il campo per debolezza o per mancanza di fiducia. Bastano i pochi che abbiano fiducia, pazienza e costanza: anzitutto fiducia”.
Ecco l’esempio di un lucido esame di coscienza che libera da rimpianti, sensi di colpa e lamentele. Ammettere una sconfitta non vuol dire aver creduto in qualcosa di sbagliato; al contempo, continua Sturzo: “Oggi dunque è l’inverno politico del partito popolare italiano – ma ‘sotto la neve il pane’ dice il proverbio. Nessuno sciupio di forze, nessuna mossa discutibile, nessun gesto inutile: il raccoglimento, lo studio, la preparazione. Essere, anzitutto, se stessi […] In tutte le nostre azioni solo il sentimento del dovere ci deve guidare; senza preoccuparci né dei vantaggi politici, né delle soddisfazioni personali, né delle probabilità di riuscita. Il resto è nelle mani della Provvidenza”.
Un anno dopo l’inizio dell’esilio, emergono le prime intuizioni su come vivere questo momento: l’esigenza di liberarsi dalla preoccupazione del risultato e dell’efficienza, il desiderio di essere se stesso. Si può a fatica immaginare il travaglio di un uomo abituato da anni a stare al centro della vita politica nello scoprire che gli eventi decisivi della storia si svolgono su un piano diverso da quello pubblico e dei grandi accadimenti.
In seguito, in una lettera del 1932 a don Tommaso Nediani, quando gli viene detto che, a condizione di domandare il permesso a Mussolini, gli potrebbe essere accordato il rientro, scrive: “Personalmente nulla desidero e nulla aspetto dagli uomini; se dovessi di nuovo scegliere, preferirei l’esilio alla servitù. Per i miei ideali religiosi e politici, spero in Dio che il mio piccolo sacrificio possa giovare non a me solo […] Per adesso lavoro, e il lavoro è conforto e speranza”. A distanza di anni, sembra che il tempo gli abbia fatto aggiungere un altro tassello al quadro delle sue scoperte, quello del lavoro. Parlare di lavoro significa affermare che non tutte le strade sono interrotte e c’è ancora un pezzo di cammino da percorrere.
Ma qual è questo lavoro? Come si attua nel contesto dell’esilio?
Rispondendo a chi esortava i cattolici, considerata la situazione ostile, a ritirarsi in una sorta di letargo, Sturzo affermò: “Se il tuo consiglio è […] che oggi nessuno si deve opporre al male che fa il regime, perché questo è potente, permettimi di ricordarti i martiri […] Comprendo che non a tutti si danno simili occasioni e ispirazioni insieme, né tutti hanno l’autorità che viene dal sacrificio di sé. Ma tu converrai con me che vi è anche il cosiddetto ‘metodo Atanasiano’: fuggire, nascondersi, peregrinare, ma contemporaneamente parlare alto, franco, sostenere i fedeli, difendere la verità, non vergognarsi delle proprie convinzioni; usando insieme l’opportunità che non è opportunismo, e l’audacia che non è temerità. Non esiste solo la testimonianza del martirio, ma anche quella offerta dal riconoscimento del valore di una vita umile, nascosta, capace di custodire una verità che altrimenti andrebbe del tutto offuscata. Il primo lavoro è allora comprendere sempre di più per che cosa si vive.
L’occasione di questo anniversario non può non interrogarci, anche nei primi mesi di un nuovo anno scolastico, su che cosa vogliamo trasmettere nell’insegnamento della storia. Una vicenda come quella dell’esilio di Sturzo ci obbliga a non considerare la storia come l’opera dei vincitori e nemmeno come la descrizione del vissuto della maggior parte delle persone. Non possiamo neanche raccontarla esclusivamente come la storia degli eroi e dei martiri. Sturzo non rientra certamente in nessuna di queste categorie. La storia è anche quella di persone che hanno agito nel nascondimento, coscienti di poter essere, in ogni caso, protagonisti degli eventi, non perché trionfanti o perché capaci di gesti eclatanti, ma perché certi che la vita valeva anche se non si era dalla parte dei vincenti. È la storia di quelli che hanno lavorato, ossia che hanno vissuto la vita come un compito, come un servizio. Affrontare gli eventi del passato è riconoscere anche il carattere effimero di molte costruzioni umane, ma questa vanità non è motivo di disimpegno, ma occasione per vivere ancora più liberamente e serenamente il tempo che ci è dato.
Per questo, l’incontro con tali vicende è per un docente, come anche per i suoi alunni, soprattutto una risorsa per orientarsi nelle vicende della storia. Il lungo esilio di Sturzo ricorda a tutti che trovare il proprio posto nel mondo non è necessariamente avere successo e riuscire, non è individuare un ruolo, ma è scorgere la possibilità di un lavoro, di un cammino.
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