Premesso che considero le produzioni di Sky Italia le migliori in circolazione nel panorama nazionale e le uniche pensate per affrontare il mercato internazionale, e che il mio giudizio potrebbe dunque essere falsato da questa convinzione, ritengo anche la terza e ultima stagione di Suburra (ideata da Daniele Cesarano e Barbara Petronio, prodotta da Cattleya e Rai Fiction per Netflix, e disponibile sulla piattaforma da qualche settimana) assai lontana, per intensità e qualità interpretativa, dal risultato ottenuto con Gomorra, madre di tutte le serie tv del genere e sua concorrente.



Vi è in primo luogo un motivo di fondo: Scampia sta a Gomorra come Ostia sta a Suburra. Ma non sono la stessa cosa, anzi. Proprio partendo da questo inevitabile confronto, dobbiamo dire che se la sagra della famiglia Savastano e di Ciro l’immortale ci sembra ancora oggi realistica proprio in primo luogo per il contesto in cui si svolge e per il ruolo ancora dominante della camorra in quel territorio, la storia romana di Suburra risulta sempre meno credibile con il passare del tempo e appare in fin dei conti una vicenda “minore”, ingigantita ad arte, priva di quei necessari agganci alla realtà. Sicuramente influisce l’epilogo avuto in questi anni dall’inchiesta denominata “Mafia Capitale”, finita poi nel modo come sappiamo, declassata a poco di più di una storiaccia di corruzione politica, frutto di intrecci tra i rami bassi dell’amministrazione capitolina con delinquenti espressione al massimo di una criminalità di quartiere. 



La parte più bella della serie rimane il racconto del rapporto di amicizia e di amore tra Spadino e Aureliano Adani. A tratti la loro relazione sembra cercare le ragioni di una normalità, ovviamente impossibile. Il bisogno di normalità è in primo luogo conseguenza del ruolo maggiore che in questa stagione ricoprono le giovani donne che formano il quartetto che aspira a comandare tutta Roma. Sono loro le uniche che sembrano avere in testa una scala di valori, il senso dell’organizzazione e degli affari, la determinazione nei momenti difficili.

Al contrario diventa sempre più irrealistico il ruolo di Amedeo Cinaglia, l’oscuro consigliere comunale diventato sempre più potente nella gerarchia politica della città, grazie all’appoggio – neanche tanto velato – del boss di Roma, quel Samurai che gira per la città indisturbato su uno scooterone, e della mafia siciliana, sbarcata a Roma ma molta attenta ad apparire solo quando serve. Cinaglia opera da solo, rivela in questa stagione il suo volto più cattivo, sa essere spietato, ma in fin dei conti non sembra in grado di coinvolgere nei suoi manéggi altri politici e di più alto livello.



Così come sembrano fantasiosi (e anche un po’ noiosi) i ripetuti tentativi di costringere un probo cardinale a cambiare idea e a tenere un costoso giubileo a Roma invece che in Africa, usando notizie sul suo passato. Se nelle prime due stagioni la Curia era coinvolta in brutte storie di affari grazie al ruolo (credibile) di intermediari dell’alta borghesia della città, oggi tutto questo svanisce in una relazione (surreale) tra politica-alti prelati-mafia che si svolge in un retrobottega di un ristorante di via Giulia.

Tra gli attori sono da segnalare accanto al protagonista interpretato da Alessandro Borghi (Sulla mia pelle, Diavoli, Il primo Re), le ottime interpretazioni di Giacomo Ferrara e di Carlotta Antonelli, nei panni di Spadino e Angelica, la coppia di giovani zingari che cercano – tra i valori della famiglia e della tradizione dei Sinti – di conquistare una vita diversa. “Siamo andati dietro ad un sogno che non era il nostro”, dirà Angelica a Nadia (la fedele ragazza di Aureliano, interpretata dalla giovane attrice romana Francesca Sabatini, Un passo dal cielo, Saremo giovani e bellissimi, I Liviatani), quando si renderà conto che le cose stanno per mettersi male.

In fin dei conti la terza stagione merita di essere vista e chi ha guardato le prime stagioni troverà ulteriori motivi per riflettere su Roma, la sua gioventù, il degrado davvero ingiustificabile in cui versano alcuni suoi quartieri, a cominciare proprio da Ostia. Così com’è apprezzabile la scelta degli autori di concluderla così.