Il titolo, ve lo concedo, è forse un po’ eccessivo. Ma un argomento di spessore richiede, alle volte, un po’ di sensazionalismo. Le cannucce di carta, direte a questo punto, sarebbero un argomento di spessore? La risposta è sì, eccome. O almeno per me. La questione si agita infatti nella mia mente già da un po’ di tempo, ma le ferie appena concluse mi hanno permesso di sondare il terreno e capire se il problema fosse solo mio. E, vi assicuro, non lo è.



Il fatto è questo: le cannucce di carta rendono qualsiasi bibita o bevanda, liscia o gassata, una schifezza. Ne alterano il sapore, ne compromettono irrimediabilmente il gusto. E dopo qualche sorso la cannuccia è già tutta molle, appiccicosa, arrotolata su sé stessa. Una porcheria, insomma.

Da che ho memoria sono una fiera amante dei succhi di frutta nel brick. Quello all’albicocca è il mio preferito, ai miei figli piace di più la pera, ma non è questo il punto. Da un po’ di mesi a questa parte, praticamente tutte le marche di succhi che compro abitualmente hanno sostituito la tradizionale cannuccia in plastica con l’alternativa ‘amica dell’ambiente’, ovvero l’odiosa cannuccia in carta. D’altronde, non lo fanno certo per divertimento, ma perché così deciso dalla famosa e famigerata Direttiva Sup che, a partire dallo scorso gennaio, ha messo al bando una serie di articoli in plastica monouso, inseriti dalla Commissione Ue nella lista nera dei maggiori e peggiori ‘inquinatori’ di mari e oceani, come cotton fioc, aste per palloncini e, manco a dirlo, le cannucce.



Immagino che, dati alla mano, i legislatori europei abbiano avuto dei validi motivi per iniziare questa crociata contro le cannucce, non sono qui per dimostrare il contrario. Ma la sostituzione con l’alternativa in carta è davvero una soluzione al problema?

Il dilemma è questo: un consumatore che beve un bricchetto, mettiamo, di tè freddo, laddove il bricchetto è fatto di plastica, sarà più agevolato a smaltire correttamente la confezione se brick e cannuccia devono essere separati in due diverse raccolte differenziate, quella della plastica e quella della carta, o piuttosto se la confezione e la cannuccia possono essere gettate in un solo circuito di smaltimento, ad esempio quello della plastica?



D’altronde, fior di dibattiti e convegni sul tema non ci hanno forse insegnato che il packaging mono-materiale è un’alternativa quasi sempre preferibile, che migliora anche sensibilmente la ‘qualità’ della raccolta differenziata?

Ma torniamo alle cannucce. Oltre ad avermi rovinato forse definitivamente un piacere che coltivo con gioia dall’infanzia, la faccenda mi fa riflettere anche sull’impatto sociale delle nuove politiche ‘green’ e, in particolare, della crociata anti-plastica intrapresa dai legislatori di mezzo mondo. Materiale che, da quando ha fatto il suo ingresso nella nostra quotidianità, ha letteralmente plasmato lo stile di vita moderno, la plastica è passata in poco più di un secolo dall’essere il nostro miglior amico al più acerrimo nemico.

Il biologo e giornalista scientifico Davide Michielin l’ha definita, in un articolo pubblicato nel luglio del 2021, “un meraviglioso fallimento ecologico”. Spiega Michielin: “Dalla sua invenzione, la plastica è stata compagna inseparabile nonché artefice del nostro sviluppo in virtù delle sue straordinarie caratteristiche. […] Un materiale perfetto e soprattutto democratico, che ha cambiato per sempre la nostra vita. In meglio”.

Per decenni l’industria è stata impegnata nella ricerca di una sempre maggiore durevolezza e resistenza. Ma proprio la longevità della plastica, una delle sue migliori virtù, è diventata oggi quasi paradossalmente uno dei suoi peggiori difetti, spingendo l’industria a una drastica inversione di rotta: “L’obiettivo delle ricerche in corso sono materie resistenti e stabili sì, ma solo fino al loro uso, al termine del quale esse siano facilmente degradabili”, sottolinea ancora Michielin. “Il segreto sta nell’equilibrio del polimero. Fino a ieri si puntava a ottenere polimeri stabili – per garantirne la durata – e si scartavano quelli instabili. Oggi sono tornati in auge proprio questi ultimi. In presenza di un particolare innesco, per esempio una luce ad alta intensità, un acido o una determinata temperatura, le catene di molecole che compongono questi polimeri sperimentali vengono decompresse, avviando un processo irreversibile di degradazione”.

Che la risposta al problema della plastica possa quindi risiedere proprio nell’innovazione scientifica e tecnologica ad essa collegata? Magari tramite investimenti, piuttosto che tassazioni? I legislatori europei, di fatto, sembrano aver optato per un approccio più in stile ‘Inquisizione spagnola’. E non è bastata una pandemia a dimostrare che non siamo ancora pronti a rinunciare alla plastica e alle sue (ad oggi) ineguagliate proprietà igieniche e di conservazione; né gli appelli di quanti hanno fatto ragionevolmente presente che buona parte dell’inquinamento da plastica è rappresentato dall’inciviltà delle persone, più che dalla plastica in sé.

Alla luce di tutto questo, cosa possiamo fare o dire noi per apportare un contributo utile alla causa? Niente purtroppo, se non questo: con buona pace di animalisti e ambientalisti, il succo di frutta bevuto con la cannuccia di carta fa davvero schifo.

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