Le emergenze degli ultimi anni in alcune aree del sistema produttivo e dei servizi, e più in generale nel sistema socioeconomico, stanno provocando un ripensamento delle strategie di lungo periodo: cosa accadrà della globalizzazione? Quale impatto nella transizione ecologica e digitale? Quali politiche di localizzazione e di approvvigionamento per lo sviluppo del Paese?
In questo scenario di incertezze e instabilità generale le criticità del mercato del lavoro e del lavoro presenti da diversi anni stentano a trovare soluzioni e in alcuni contesti crescono ancor di più. Tra quelle più rilevanti si può citare: un diffuso skills mismatch – professioni che non si trovano; una dinamica salariale spenta e senza crescita, nonostante la scarsa offerta rispetto alla domanda dei datori di lavoro in alcuni settori; una presenza alta di giovani che non lavorano, non studiano e non cercano occupazione, assieme alla presenza di giovani che trovano lavori adeguati fuori dal Paese; un forte divario di opportunità tra nord e sud del Paese.
Potremmo continuare, tuttavia le questioni poste hanno un senso diverso dopo la pandemia e l’avvento della drammatica guerra in Ucraina. Infatti, anche se la trattazione degli argomenti pare ritualmente la stessa, molti dei presupposti sottostanti alla discussione sono cambiati e cambiano il senso della discussione in corso.
Dopo la crisi forzata dalle misure anti-pandemiche ci si sarebbe aspettati un ritorno vivace dei disoccupati alla ricerca di lavoro. Ci si attendeva, quindi, un eccesso di offerta di lavoro. Ma il fenomeno non c’è stato. Anzi, seppure con diversa dimensione, il periodo è diventato noto per la “great resignation”, le “grandi dimissioni”, un fenomeno molto più rilevante nel mondo anglosassone che non in Italia, dove pur se l’andamento di alcuni indicatori può essere letto in questo senso non possiamo dimenticare che il fenomeno è noto da diversi anni. La pandemia e le chiusure forzate delle attività economiche che le misure anti-pandemiche hanno previsto sono state concomitanti (e hanno oscurato) l’acuirsi di un fenomeno di lungo periodo, vale dire la restrizione del mercato del lavoro dovuta all’evoluzione demografica.
In particolare, l’intrecciarsi dei fenomeni demografici e di flussi migratori interni al Paese è destinato a durare ripercuotendosi sulle disparità territoriali e sulla disponibilità effettiva di competenze. Elaborando dati Istat relativi all’insieme dei fenomeni demografici (invecchiamento, saldo naturale e saldo migratorio, sia interno che esterno) emerge al 2030 (rispetto al 2020) una riduzione di circa 2 milioni e 200 mila persone nella classe di età fra i 20 e i 64 anni, l’intervallo di età che contiene la maggior parte della vita produttiva di una persona. Gran parte di questa diminuzione è prevista al sud e nelle isole (oltre 1,2 milioni).
Questo scenario è certamente legato anche alla specializzazione territoriale del Paese, dove le grandi imprese industriali, quelle dell’informatica, della comunicazione e della finanza si concentrano al nord, mentre le piccole imprese dei servizi e la Pubblica amministrazione hanno un peso maggiore nel mercato del lavoro del centro-sud e delle isole. Ne consegue che alcuni mercati hanno un’offerta più ampia in termini di specializzazione e varietà della domanda espressa dai datori di lavoro e finiscono per attrarre competenze sia dalle aree interne della stessa regione che da altre regioni. Una dinamica simile esiste a livello europeo e internazionale. Allo stesso tempo, le dinamiche e i livelli differenziati dei salari nei diversi settori è una causa evidente che acuisce le differenze fra i mercati del lavoro di diverse parti del Paese (tra 8,8 e 18,8 mila euro prevalentemente concentrate al sud e isole; tra 18,8 e 52,7 mila euro al centro e soprattutto al nord – redditi da lavoro dipendente, dichiarazione 2020 – fonte open data agenzia entrate).
In questo scenario che amplifica le criticità del mercato del lavoro del nostro Paese, la pandemia ha portato alla ribalta il tema del lavoro da remoto, sia nella forma del telelavoro emergenziale che sotto la forma dello smart working. Il test forzato è stato sicuramente un periodo di apprendimento e oggi molte imprese e organizzazioni hanno assunto una maggiore consapevolezza delle conseguenze che l’adozione del lavoro remoto comporta, sia in termini di impatto sulle relazioni interne e con i clienti, sia in termini di costi e di vantaggi (come testimonia la ricerca effettuata da Randstad e Fondazione per la Sussidiarietà).
Ogni impresa ha potuto inoltre valutare la compatibilità delle modalità di lavoro remoto con il suo mercato di riferimento (non tutto si può “remotizzare”) e con le diverse articolazioni organizzative che l’impresa aveva adottato fino al momento della repentina e forzata sperimentazione. Le risposte all’indagine (parte della ricerca sopra citata) danno conto di questa inevitabile differenza fra mercati e storie d’impresa diverse, ma fanno anche capire che il lavoro remoto può restare a vari livelli e in alcune articolazioni organizzative anche in futuro, quando non sarà un obbligo o una risposta all’emergenza, ma quando potrà diventare uno strumento di realizzazione di strategie aziendali nuove.
Inoltre, è interessante osservare che dal punto di vista del lavoratore e delle comunità locali (soprattutto nei territori a “forzata emigrazione”) sono emerse durante la pandemia esperienze che certamente fanno riflettere in merito alle prospettive future. Diverse sono le esperienze dei centri di telelavoro al sud nate principalmente dal basso, dove l’impresa ha eventualmente compartecipato alla aggregazione di forze diverse: lavoratori autonomi, enti locali e associazioni. Tali iniziative, nate dall’esigenza di lavoratori che sono rientrati nei propri luoghi di origine durante il periodo della pandemia, hanno dato luogo alla creazione di insediamenti dove condividere postazioni di lavoro, incrociando anche una domanda che si va allargando di uffici temporanei, con risorse condivise che possano funzionare come incubatori di nuove idee imprenditoriali e iniziative professionali. Spazi di lavoro nati in comuni del sud di piccole dimensioni come Aliano, Sant’Angelo le Fratte, Castelbuono, Tursi e Licata, così come altre esperienze nate a Palermo e a Trapani. Sono iniziative tese a contrastare lo spopolamento dei piccoli borghi e delle aree interne del centro/sud Italia attraverso l’incentivazione dell’occupazione giovanile e femminile all’interno di tali territori, ma anche rivolti a favorire il “matching” tra domanda e offerta di lavoro all’interno dell’intero territorio nazionale, e a sviluppare una sensibilità sul tema della coesione sociale nelle realtà aziendali.
Ci si può aspettare che le esperienze “dal basso” e le strategie delle imprese più grandi, prima o poi si incontrino, ma non lo si può assolutamente dare per scontato. Spesso le imprese hanno visioni organizzative non facilmente sovrapponibili con quelle delle iniziative dal basso (un maggiore accento sul controllo organizzativo rispetto alla valorizzazione della creatività e della fertilizzazione incrociata delle idee di chi lavora in uno spazio condiviso); tuttavia l’opportunità di poter favorire lo sviluppo in alcune aree del Paese e nello stesso tempo poter contare su competenze altrimenti scarse sul mercato del lavoro locale cominciano a presentarsi come opzioni che si possono percorrere assieme.
La pandemia e la restrizione del mercato del lavoro hanno mostrato che la concentrazione delle competenze in alcune aree non è perseguibile all’infinito, e che molte delle competenze generate dal sistema scolastico e universitario non debbono necessariamente e a volte non possono e non vogliono, spostarsi per essere impiegate al meglio.
Come fare incontrare domanda (in evoluzione) e offerta non è una cosa che possa essere richiesta solo all’azione pubblica. A parte il ruolo esercitato dall’ente locale, è la partnership fra comunità locale e operatori del mercato del lavoro che può offrire non solo una maggior numero di servizi alle imprese che intendono avviare sperimentazioni, ma anche una maggiore visibilità a iniziative che possono far parte degli strumenti di supporto allo sviluppo strategico di imprese.
Le esperienze in atto e le valutazioni delle imprese (intervistate nel corso della ricerca) sottolineano la natura sussidiaria delle sperimentazioni in atto e soprattutto la natura sussidiaria del loro sviluppo potenziale. Laddove le comunità locali possano far leva su economie di aggregazione, imprese private e intermediari del mercato del lavoro possono consolidare le esperienze locali e allo stesso tempo far crescere la loro capacità di assumere competenze nuove (difficili da trovare) e partecipare attivamente allo sviluppo del Paese.
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