Esiste anche un divario di narrazione e conseguente percezione della realtà tra Nord e Sud del Paese. Nasce da questo presupposto una ricerca promossa dal Sindacato unitario dei giornalisti della Campania in collaborazione con il Dipartimento di Scienze sociali dell’Università Federico II, l’Istituto di Media e Giornalismo dell’Università della Svizzera italiana e l’Osservatorio europeo di giornalismo.



La tesi, che dà il nome al progetto, è che in Italia esiste un’Informazione (s)corretta capace di alimentare stereotipi e pregiudizi a danno del Mezzogiorno. La generalità dei media – naturalmente con le dovute eccezioni – usa due pesi e due misure nel raccontare i fatti che accadono nelle due estremità della penisola contribuendo ad allargare le distanze anziché ridurle con ricadute anche di ordine economico.



Invece che lavorare per unire – questa la conseguenza indesiderata – giornali, televisioni e siti internet lavorano per dividere: talvolta consapevolmente, ma nella maggior parte dei casi per inerzia, pigrizia, ignoranza. Un bel problema, se i risultati dovessero confermare i sospetti, perché il meccanismo che si mette in moto va nella direzione opposta a quella da tutti auspicata almeno a parole.

Un piccolo contributo alla causa (individuare un nodo è primo il presupposto per scioglierlo) può venire dall’osservazione di come è stato trattato un fatto di cronaca, reso pubblico da poco, che se fosse accaduto al Sud invece che al Nord avrebbe ricevuto con ogni probabilità ben altra accoglienza: lo sversamento di liquami tossici su terreni agricoli ora inquinati da parte di un’azienda di Brescia.



La notizia si basa su una serie di intercettazioni. I fanghi velenosi riversati in non meglio precisati campi di coltivazione del mais, nella Pianura padana, hanno portato gli inquirenti a indagare quindici persone e a sequestrare capannoni e conti correnti come di solito avviene in queste circostanze. Le analisi condotte sul posto hanno rilevato la presenza di metalli pesanti, idrocarburi, cianuri, cloruri.

Ce ne sarebbe abbastanza per gridare allo scandalo, per mettere in croce gli autori del delitto e avvertire i consumatori del pericolo d’intossicazione per chi gli incoscienti che s’avventurassero a ingerire i prodotti coltivati. Non è accaduto – forse non è accaduto ancora – e tutto per ora è confinato alle pagine interne del Corriere e della Stampa che hanno riportato l’accaduto con diligenza professionale.

Nulla a che vedere con l’enfasi e il vigore con cui è stata svelata al mondo la terra dei fuochi. Il battage che ne scaturì fu così forte e insistente da dare l’impressione che l’intero meridione fosse rimasto infetto. E che tutte le produzioni agroalimentari e le coltivazioni del Sud fossero da evitare per chi avesse a cuore la propria salute. Le vendite e le quotazioni della mozzarella, per dire, crollarono di botto.

Eppure, senza voler ridimensionare la gravità del fenomeno, l’area davvero interessata al bruciamento delle tossine era circoscritta a pochi ettari di terreno. E a nulla valsero i numerosi tentativi del presidente della Regione dell’epoca, Stefano Caldoro, rivolti a ricondurre i fatti nel perimetro della realtà. La storia era troppo intrigante per non essere lanciata, rilanciata, ingigantita.

Era anche l’apoteosi della fiction Gomorra il cui assunto diventava la premessa maggiore dentro cui inserire acriticamente le premesse minori riguardanti il territorio. Se quello è il contesto, tutto va interpretato in chiave criminale. E, di conseguenza, da denunciare con clamore. Il che non dà spazio alla speranza e non dà scampo alle persone. La riflessione è appena cominciata.

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